Prima edizione 2001 • primo classificato seconda categoria

Ghia kan Taifel SlÒmperos!

Fernando Larcher

IL RACCONTO

Per lui che faceva carbone di legna agli Oltmauern, oltre la Clama, non era mica facile. Giorni e giorni, a volte anche settimane senza veder anima viva, da solo, ad attizzare il fuoco della carbonaia, a respirare l’odore acre del fumo, lo sporco e il sudore che gli stagnavano addosso.

D’estate andava meglio, c’erano i boscaioli che riempivano la foresta di voci e di rumori e c’erano i caradóri 1, li sentiva incitare i buoi o i muli e allora usciva dal bosco, si faceva vedere. Quasi sempre si fermavano, alzavano l’ala del cappello, facevano un cenno della testa.
I più curiosi aspettavano che arrivasse fin sulla strada, si appoggiavano al carro, si accendevano la pipa o tiravano col naso una presa di tabacco nero.
- Come va Slómperos! - gli dicevano - Siete un signore voi qui alla Clama, nessuno che vi dia fastidio…

Era sempre quello che ripetevano, ce l’avevano con questa storia che lui se ne stava in pace mentre il resto del mondo oltre l’Astico sembrava vivesse nel caos e in un inferno di problemi.
- C’è poco da stare allegri - rispondeva - sono qui solo come un cane, se mi piglia un colpo o se cado per terra nessuno mi viene a cercare, cosa volete…

Povero Slómperos, neanche lui vi avrebbe saputo dire perché fosse finito là a far quella vita da randagio. Per tirare a campare vi avrebbe detto, suo padre faceva carbone e suo nonno faceva carbone, anche il bisnonno faceva carbone, che cosa poteva fare lui di diverso? Talvolta lo prendeva la malinconia, un’insofferenza insopportabile per quei luoghi, una smania di fuggire, di infilare il sentiero per l’Astico e raggiungere a passi svelti l’osteria del Modesto Rech a San Sebastiano, l’unico posto in cui gli sembrava di trovare qualcosa di quel che gli mancava.

Arrivava arruffato e selvatico, il pastrano consunto e rattoppato, le mosche che gli giravano attorno. Si appoggiava al banco, ordinava il primo quartino e aspettava che arrivassero. Non erano proprio degli amici, ma tant’è. E loro non perdevano l’occasione, gli si facevano attorno, lo facevano bere, si divertivano alle sue spalle.

- Dicono Slómperos che dentro agli Oltmauern avete visite! donne che vi vengono a trovare di nascosto, i mariti lontani sui cantieri, dite Slómperos, com’è ‘sta storia?
Lui lasciava dire, faceva qualche smorfia tra il divertito e il seccato ma talvolta, aizzato dal vino, prendeva coraggio, replicava aspro, insolente. Allora lo scherzo poteva farsi insulto e le pacche sulle spalle potevano diventare spintoni, anche sberle.

E non di rado finiva fuori dalla porta, a gambe all’aria: ghia kan Taifel Slómperos! gli gridavano dietro nel dialetto selvatico dei cimbri, vai al diavolo Slómperos! Allora con la testa e lo stomaco in rivolta, il vomito sull’orlo della bocca, non gli rimaneva altro che ritornare agli Oltmauern, nei suoi boschi della Clama, nel culo del mondo.L’inverno in cui lo Slómperos morì fu un inverno di neve, proprio di quelli di una volta.
C’era stata pioggia subito dopo i Santi e grandi banchi di nebbia gravarono un paio di giorni tra Carbonare e i Mórganti, sembravano incollati ai boschi da tanto ristagnavano. Poi, ed era un giovedì pomeriggio, cambiò tutto, si alzò il vento, il cielo si fece di un grigio scuro e verso sera prese a nevicare, dapprima piano, poi con sempre maggiore insistenza.

Fu proprio quel giovedì che lo Slómperos, intristito dell’atmosfera piovosa di quei giorni, decise di lasciare gli Oltmauern. Si avviò che era metà pomeriggio e già mentre scendeva il sentiero dell’Astico, poco sopra i Lìber, si accorse di come il tempo stesse cambiando: dalla valle tiravano folate di aria fredda e sopra il dosso del Cherle si stendevano nubi che non promettevano niente di buono.
Stavolta è neve, pensò. Ma non si diede pena: c’era una buona brenta di crauti in cantina, un cassone colmo di patate nella dispensa, poi mele, pere e noci, anche un paio di sacchi di farina macinata fresca… non c’era da preoccuparsi, poteva anche nevicare.

Quando arrivò all’osteria, il respiro pesante per la salita, cadevano i primi fiocchi e stava già per fare buio. Dentro non c’era quasi nessuno, le lucerne sopra il banco erano accese, la stufa buttava un bel caldo. Si appoggiò al banco e ordinò il suo primo quartino. Quel pomeriggio non si fecero vivi né lo Zóbele né il Laimer, che pure non lo avrebbero risparmiato a battute e scherzi, e un po’ gli dispiacque. Rimase assorto a bere e ad ascoltare le chiacchiere di quelli che andavano e venivano, lo sguardo basso sulle venature del bancone o perso tra le corna dei trofei di caccia appesi al muro.

- Ce n’è già una ventina di centimetri! - annunciò entrando l’Aristide Spilz che veniva dalle Buse ed era diretto a Folgaria. Gli si sedette proprio di fianco scrollandosi la neve dalla mantella.
- Salute Slómperos, com’è, avete lasciato la Clama con questo tempo?
- Eh, che volete, una volta ogni tanto… disse lui con la voce impastata e gli occhi lucidi.
- Guardate che nevica forte - gli disse ancora l’Aristide che aveva capito l’andazzo - se pensate di tornare a casa è meglio che vi avviate, fuori non promette niente di buono! Lo Slómperos alzò la testa e lanciò un’occhiata verso i vetri della finestra, sembrava che la cosa non lo riguardasse più di tanto.

La sera scivolò via noiosa e lenta. Verso le dieci era rimasto solo, tutti se ne erano andati e il Modesto gli aveva fatto capire che se anche lui avesse tolto il disturbo avrebbe gradito, che a quel punto aveva proprio intenzione di chiudere la baracca, con quel tempo non sarebbe arrivato più nessuno. Non aveva replicato. Certo che, una volta messe giù le gambe, le sentì alquanto fiacche, barcollò anche un attimo ma comunque mise quattro centesimi sul banco e riuscì a prendere la porta.
La bufera che c’era fuori l’avvolse come un turbine, gli girava attorno fischiandogli negli orecchi e subito lo fece rinsavire, come se gli avessero mollato due sberle.

Cercò di coprirsi meglio che poteva, tirò su il bavero, si calcò bene il cappello e infilò il sentiero sotto le case. Il buio era fitto e la neve era farinosa. Passato l’urto del freddo la testa riprese a girargli, le gambe si rifecero deboli e sentì gran vampate di calore. Fece alcuni ruzzoloni, una volta scivolò di lato e un’altra ancora cadde indietro, fortuna che c’era la neve che parava il colpo. Finalmente si trovò davanti le case dei Cùeli.
Nel villaggio sull’Astico la notte era calata in fretta. Laggiù fa buio prima e non c’è da farsene meraviglia, se conoscete il posto. All’ora in cui lo Slómperos stava aggrappato al banco dell’osteria ad attaccare il terzo quartino quelli dei Cùeli avevano già chiuso porte e finestre, rigovernato le bestie e messo un piatto di minestra d’orzo in tavola.

Mentre poi lo Slómperos, annebbiato dal vino, stava lottando col suo equilibrio in cima al sentiero del Lóz avevano già spento le lucerne, infilato gli scaldaletti di alluminio sotto le coperte e si erano raccomandati l’anima a Dio, che quando si chiudono gli occhi non si sa mai se poi si avrà la grazia di riaprirli. Quello che accolse lo Slómperos sulla via del ritorno era un paese profondamente addormentato.

Rimase immobile davanti alle sagome scure delle case. Tese l’occhio e l’orecchio, casomai una luce o un rumore potesse indirizzarlo verso qualche anima caritatevole. Non ce l’avrebbe fatta ad arrivare alla Clama: nevicava sempre più fitto, la testa gli girava ancora, si sentiva fiacco e quel caldo di prima gli era fuggito dalle ossa, ora un freddo umido e pungente lo stava attanagliando alle gambe. Si fece coraggio e si avvicinò al primo portone. Era la casa del Leonardo, il Nìart, gli aveva anche venduto del carbone una volta.

- Nìart, Nìart! - gridò con quanto fiato aveva in corpo. Dalle finestre chiuse non giunse alcuna risposta, non si vide il minimo bagliore di un lume.
- Nìart! - riprese con più forza - Nìart, uscite ad aiutare il povero Slómperos, aiutatelo per carità!
Nella casa l’invocazione dello Slómperos giunse come una voce dell’aldilà, ma arrivò.
- Sentite, sentite Nìart, qualcuno vi sta chiamando! - disse l’Ancilla al marito che non aveva udito proprio nulla e russava alla grande. L’uomo aprì gli occhi, insonnolito.
- Cosa c’è, chi chiama? - chiese.
La donna rimase seduta sul letto con gli orecchi tesi.
- Vi prego, aiutate il povero Slómperos! - rifece la voce che veniva dal buio. A quel punto l’Ancilla si gettò uno scialle sulle spalle e uscì dal letto, avvicinandosi alla finestra. La neve e il vento infuriavano sui vetri ghiacciati. Si fece coraggio e l’aprì, sporgendosi per quanto bastava.
- Chi è, chi è che chiama?! - gridò nella notte trasalendo al freddo che le mordeva la faccia.
- Ancilla! Ancilla, sono lo Slómperos! Vi prego Ancilla, dite al Nìart di farmi entrare, che nevica, nevica forte e ho da tornare a casa ma non mi tengono le gambe…
- È lo Slómperos! - disse l’Ancilla rivolta al marito - chiede se lo potete far entrare, che nevica forte…
- Ghia kan Tàifel Slómperos! Vai al diavolo Slómperos! - disse il Nìart tra i denti, infastidito. Quelle poche parole riempirono la stanza con un tono che non ammetteva replica.

L’Ancilla rimase zitta, guardò giù nel buio ma non vedeva nulla. Si immaginò il viso dello Slómperos teso verso di lei, contro la neve che cadeva fitta, in attesa di una risposta. Ma la risposta che lei gli doveva dare non era quella che lui voleva, allora si strinse nello scialle e chiuse la finestra.
- Ancilla! Ancilla! - sentì chiamare ancora mentre stava rientrando nel letto. Sotto le coperte si fece il segno della croce poi si raggomitolò contro il marito che già era tornato a ronfare, girato dall’altra parte.

Lo Slómperos rimase a guardare la casa avvolta dal buio e la finestra definitivamente chiusa. Si fece coraggio e si avvicinò alla casa accanto, poi all’altra ancora. Bussò, gridò i nomi di quelli che ci stavano dentro, implorò, promise denaro e carbone, ma non udì voce, nessuno rispose, nient’altro che vento gelido e turbini di neve tra le case dei Cùeli.
A quel punto con passo incerto e il respiro affannoso si avviò per il sentiero che si inoltrava nel bosco e oltrepassò il torrente: il buio era pesto, la neve cresceva, la sentiva già sotto il ginocchio, arrivare agli Oltmauern non sarebbe stato facile.

Il giorno dopo nessuno pensò più allo Slómperos. La neve era caduta abbondante, oltre mezzo metro, e aveva coperto tutto. Gli uomini furono impegnati a liberare il sentiero che sale a San Sebastiano, si misero al lavoro di mattina presto che ancora un po’ nevicava, in fila uno dietro l’altro, avanti a colpi di badile. Venne quasi sera prima che avessero finito.
Non pensarono allo Slómperos neppure dopo, nei giorni e giorni che seguirono quando giunse Natale e con le lanterne in mano salirono alla chiesa per la messa di mezzanotte.

Che splendida notte fu quella! Sotto la luna la neve gelida mandava bagliori e riflessi di stelle e sulla via del ritorno si sentivano i canti dei pastori, poi Stille Nacht, heilige Nacht… le note sentite in chiesa gli erano rimaste dentro. Anche gennaio passò senza che nessuno si ricordasse di lui: erano tutti presi dal macello dei maiali, erano giorni in cui gli uomini affilavano coltelli e coltellacci, le donne preparavano grandi pentole e tegami, e davanti alle stalle, di primo mattino, la neve era già tutta insanguinata, i maiali appesi per le zampe ai portoni delle stalle come cristi crocefissi.

Dello Slómperos si ricordarono improvvisamente a primavera, appena andato via l’inverno. Era la fine di marzo. Già da qualche giorno si faceva sentire un sole meno selvatico e l’Astico era ingrossato dalla neve che si scioglieva su per le rive.
Per caso, andando per legna, il Rino Zóbele trovò ciò che restava di lui poco sotto il Cnèutla. Quasi ci andò addosso e fece un salto indietro per lo spavento! E non c’è da stupirsi, quel povero balordo aveva la faccia mangiata dalle volpi, le ossa del teschio bianche e ben ripulite.

Anche il resto del corpo era in gran parte mangiato: nella pancia non c’era più dentro niente, si vedeva il bacino e anche le costole e le vertebre. Che fosse lo Slómperos non c’erano dubbi, tutti riconobbero il suo pastrano e le braghe sporche di carbone.
1 caradór: il carrettiere, la professione di chi trasportava tronchi con il proprio carro.