Seconda edizione 2003 • segnalato seconda categoria

Un ballo per Zorban

Fernando Larcher

IL RACCONTO

Zorban Djevich strinse la Schwarzlose ancora più forte. Anche gli altri si erano irrigiditi, lo sguardo fisso al bosco, trecento metri oltre la trincea. Zorban guardò la linea del terreno davanti a sé e si soffermò sulla sagoma che emergeva dall’erba, la schiena curva e accasciata di Christian Rohmer.
Gli era caduto davanti la sera prima mentre correvano all’assalto, poco oltre i reticolati. Le mitragliatrici russe li avevano fatti saltare come birilli e solo in diciotto, su quaranta che si erano lanciati fuori, erano riusciti a tornare indietro. Erano passate più o meno quindici ore dal momento in cui Rohmer era caduto buttando le gambe come un ubriaco e nella sua postazione Zorban pensò, tirando dal mozzicone di sigaretta, che la mitragliatrice ora la teneva in mano lui. Li stava aspettando.

I russi attaccarono subito dopo pranzo, appena riposte le gavette. Improvvisamente fu un gran gridare e tutti si alzarono di scatto. Zorban si aggrappò all’attrezzo infernale. I russi usciti dal bosco correvano spostandosi continuamente da una parte all’altra come se il comico balletto servisse a schivar le pallottole.
Erano tanti e gridavano come ossessi. Puntò sulla sinistra, dove erano meno sparsi, e cominciò a sparare. Il sussulto dei colpi gli sconquassava le braccia e l’odore acidulo della polvere da sparo gli dava un vago senso di nausea. Fu quando allentò le mani intorpidite che si accorse dei due arrivati fin sul bordo della trincea, chissà come. Lo stupore gli gelò il sangue. Il più alto balzò dentro tirandosi dietro dei sacchi di sabbia e la sua lama lucente si conficcò rapida e precisa nel collo di Stencker, il servente.

Poi si volse contro di lui puntandogli il fucile al petto. L’altro invece afferrò la mitragliatrice. Zorban si gettò di lato un attimo prima che la lunga lama gli centrasse lo stomaco. Quindi estrasse svelto la baionetta e la conficcò con forza nel fianco del suo aggressore che, mancandolo, si era sbilanciato in avanti. Provò un senso di euforia quando sentì la lama penetrare la stoffa ruvida e grezza del suo nemico.

Il russo emise un gemito piagnucoloso, come per un dispetto troppo crudele. Zorban lasciò andare il pugnale e il poveraccio cadde di lato. Poi con un salto fu in piedi e fu allora che si accorse della confusione attorno, dei morti nella trincea e del gran rumore di spari. Si sporse dal terrapieno e vide a metà pendio l’assalitore che aveva afferrato la sua macchina. La stava portando via. Zorban imbracciò il fucile e prese bene la mira. Fece partire il colpo e il russo cadde all’indietro, rovesciandosi su un fianco. Allora scese di corsa tra i reticolati divelti, si caricò la mitragliatrice sulle spalle e a lunghi passi, ansimando per la fatica, la riportò in trincea, dove stava.

Quel gesto, che il tenente Tresler giudicò eroico ed esemplare, valse a Zorban una medaglia al valore e una licenza premio, da poter fare subito. Tra l’invidia dei commilitoni la sera stessa riempì il sacco delle sue cose e il giorno dopo salì su un’ambulanza diretta a Gòrlice, a prendere il primo treno per Praga.

Zorban vide per la prima volta Norina nella piazza del mercato. La ragazza era in compagnia di un’anziana signora, che teneva a braccetto, davanti a una vetrina di pizzi e merletti. Ma lei non si accorse di lui. Sedici anni fatti ad aprile, Norina era da poco giunta a Praga dal lontano Welschtirol con la madre Catina, il nonno Adolfo e la nonna Rosa. Assieme ad altre tre famiglie di profughi, tra cui dei parenti della Valsugana, avevano trovato alloggio sul retro della casa municipale, nella rimessa delle carrozze postali. Ebbero le tre stanze che erano state dei postiglioni e l’uso della cucina della casa del custode.

Il suo destino incrociò quello di Zorban la sera del 18 agosto, in piazza San Venceslao, alla festa per il compleanno dell’imperatore. Norina ci andò con la madre e la cugina. Era una sera calda e la piazza si riempì presto di gente. Gruppi di soldati, chiassosi e disordinati, si spintonavano e cantavano a squarciagola. Erano gli eroi, erano la patria in guerra, chi poteva dir loro qualcosa? Chi poteva chiedere loro maggior contegno? Un po’ intimorite e un po’ divertite le due cugine li osservavano scambiandosi qualche commento poi, quando finalmente l’orchestra iniziò a suonare, presero posto sulle panche.

Fu allora che Zorban si presentò a Norina. Si inchinò leggermente e tese la mano. Lei non se lo aspettava. Sorpresa e confusa si volse alla cugina e alla madre come per chiedere consiglio ma loro, altrettanto sorprese, la guardavano ammutolite. A occhi bassi fece cenno di no con la testa.
Zorban ritrasse lentamente la mano e se ne andò. I suoi compagni lo accolsero con risate grasse e sguaiate.
Qualcuno gli diede delle gran pacche sulle spalle e un altro gli fece volare in alto il berretto. Seguirono altre risate e delle voci intonarono una canzonaccia da caserma. Norina si appoggiò alla cugina. Lei le sussurrò qualcosa, la fece sorridere, poi risero assieme.

Da quel momento, sebbene incuriosite dalla danza, le due ragazze non smisero di sbirciare i soldati che poco oltre il palco dell’orchestra bevevano birra e vociavano chiassosi. Tra loro ce n’era qualcuno che meritava di essere guardato. Forse fu una scommessa, fatto è che ad un certo punto dal gruppo si staccò un biondino dalla camminata leggera. Come già aveva fatto Zorban, si avvicinò a Norina, fece un inchino e le porse il braccio dicendole qualcosa che lei non capì, ma che era chiaramente un invito al ballo.

Norina lo guardò, ancora una volta incerta. La cugina le diede un colpetto col gomito, la madre le disse vai, vai, ti invita a ballare, vai… Allora si alzò e il soldato le cinse la vita. Due passi e si trovarono in mezzo alla pista. A quel punto i soldati tirarono in alto i berretti e presero a gridare forte Hurrà! Hurrà! Norina si sentì avvampare, non sapeva dove posare gli occhi. Il suo cavaliere capì l’imbarazzo, la strinse un po’ di più e le parlò piano, le disse parole per lei incomprensibili ma la voce era calma e gentile. Quando la musica finì si ritrovarono fermi in mezzo alla folla. Lei accennò ad andarsene ma l’orchestra riprese a suonare e il soldato biondo le strinse la mano. Così continuarono a ballare e poi ancora finché, al quarto invito, lei gli sorrise e staccò la mano dalla sua. Anche lui sorrise e le fece un breve inchino.

Emozionata Norina tornò veloce a sedere accanto alla cugina. La ragazza, che l’aspettava curiosa, le prese le mani tra le sue. Aveva gli occhi luminosi, voleva sapere, voleva sapere tutto. Si misero a chiacchierare, chine una sull’altra. Fu così che non si accorsero dell’uomo che si era avvicinato, della sagoma alta e scura in piedi davanti a loro. Quando Norina lo vide ebbe un sobbalzo: il soldato Zorban la stava invitando nuovamente al ballo. Per un attimo non seppe che fare ma poi, risoluta, fece segno di no.

Zorban ritrasse la mano. Ma subito dopo e senza proferir parola calò sul viso accaldato della ragazza un pugno terribile. Norina cadde all’indietro e cadendo a terra trascinò con sé la cugina e la madre. Attorno si levarono grida e la gente fuggì via. Zorban non si fermò. Le assestò due calci che la fecero ripiegare su sé stessa. Poi la prese per i capelli e con quanta forza aveva nelle braccia le sbatté violentemente la testa sul selciato una, due, tre, quattro volte. Stava per percuoterla nuovamente ma fu trattenuto dai suoi commilitoni che finalmente gli si erano fatti addosso per fermarlo.

Nella piazza vi fu subito una gran confusione. Accorsero soldati e gendarmi. Norina era esanime a terra, pallida come un cencio e con gli occhi semichiusi. Il viso si stava gonfiando e il sangue le colava copioso dalle narici ma soprattutto dietro, dalla nuca. «Un medico! Un medico!» gridarono. Un medico c’era e cercava faticosamente di farsi strada tra i curiosi che si accalcavano attorno. ‘Via, via!’ gridò finché gli fecero spazio e poté chinarsi sulla ragazza.
Un gendarme si avvicinò con una lanterna e cercò di far luce. Il medico le girò di lato il capo con delicatezza, si fece dare la lanterna per vedere meglio ma i capelli intrisi di sangue non permettevano di vedere bene la ferita alla nuca. Poi le tastò il polso, le slacciò il corpetto e le ascoltò il cuore, infine le sollevò le palpebre. Provò e riprovò gli stessi gesti ma non c’era più nulla da fare, Norina era morta.

Zorban, portato via immediatamente, fu rinchiuso nel carcere militare di Zijlianov, un imponente edificio situato oltre le mura. Il comandante del carcere lo interrogò la notte stessa e anche il giorno dopo, ma inutilmente, Zorban taceva, gli occhi piantati per terra. Verso sera arrivò il giudice del distretto. Neppure lui riuscì a farlo parlare. Sul tavolo il pranzo portato a mezzogiorno non era stato toccato.
Il recluso si rifiuta di collaborare e di spiegare le ragioni del suo gesto, scrisse nel verbale. Quindi gli comunicò che era imputato di omicidio. E che in attesa del processo avrebbe disposto per lui la scarcerazione e l’immediato ritorno in linea. Inoltre, aggiunse, per il disonore arrecato al glorioso corpo dei Kaiserjäger la decorazione guadagnata sul campo gli era stata tolta. Buona fortuna, mormorò uscendo dalla cella.

Zorban Dijevich cadde sotto i colpi dei russi il 24 agosto verso le cinque del pomeriggio, durante il terzo attacco alle linee del Dnjiepr.
L’ordine non scritto che l’aveva seguito in trincea era che avrebbe dovuto partecipare a tutti gli assalti e che sempre avrebbe dovuto balzare fuori tra i primi. Solo un Dio immensamente misericordioso avrebbe potuto salvarlo.