Terza edizione 2005 • secondo classificato seconda categoria

Innamorata

Anna Tava

Anna Tava

Nata a Mezzolombardo (TN) nel 1958, dove ancora vive con il figlio ventenne. È insegnante di scuola dell'infanzia e psicomotricista, lavora presso il Servizio scuola dell'infanzia della Provincia Autonoma di Trento. Scrive e collabora per riviste della scuola e per un periodico locale.
Da dicembre 2005 è in libreria il suo primo libro, una raccolta di racconti della Seneca Edizioni dal titolo “Assenze e presenze”; INNAMORATA è uno di questi.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Tenero ma non romantico, questo veridico racconto dell'amore fra due persone anziane procede con levita' e senza sbavature, su un arguto tono colloquiale, verso una conclusione attentamente preparata ma non scontata, di un realismo sereno.
Lo stile è sorvegliato, di un'eleganza senza sbavature.

IL RACCONTO

Mi sono innamorata! Ommioddio.

Non me l'aspettavo, credevo non mi sarebbe successo mai più. E non certo in questo modo, con queste palpitazioni, questa agitazione, come una ragazzina, una stupida. Ommioddio.

Mentre lavo i piatti canticchio senza accorgermene, per fortuna abito sola e nessuno mi vede. Mentre faccio la spesa m'incanto davanti a qualche tipo di pasta chiedendomi se gli piacerebbe, immaginandomi a prepararla, servirgliela, guardarlo mentre la mangia. Passeranno alcuni minuti e io lì, davanti alle scatole, con la faccia imbambolata. Penseranno sia un po' svanita.

Anche mentre dico il Rosario mi perdo in fantasticherie, scusami Madonna, spero valga lo stesso.

Mi ero innamorata altre due volte nella mia vita e ne sono stata ogni volta felice, ma questa volta… un po' mi vergogno.

La prima volta è stato da ragazza, io quindici anni e lui diciotto. Erano tempi che ora stanno dentro i libri di storia, gli anni fra le due grandi guerre, quando c'era da fare l'Impero in Africa, ma la gente più di tutto faceva la fame. Lui aveva la bicicletta, non era da tutti, e quando passava e mi guardava mi venivano le gote rosse. Aveva i baffetti per sembrare più grande e a me pareva proprio adulto. Per lui ho sentito venirmi in mente tutte le tappe che una donna di allora voleva: il matrimonio, i figli, una casa, una vita. Quando mi ha parlato io non ho saputo rispondere, ma lui ha capito che gli piacevo. Funzionava così, allora: poche azioni, molti pensieri. Non come oggi che è subito dire, subito fare, subito consumare. Le nostre storie erano così pensate che spesso erano inventate e lui chissà com'era in verità. Perché non l'ho saputo mai. È partito con la Brigata Giulia ed è andato a finire in Siberia, da lì mi ha scritto solo due volte su quelle cartoline militari con su 'VINCEREMO'. Ha vinto il freddo che c'era lì invece, e a 40° sotto zero chissà se il mio ricordo gli ha tenuto un po' caldo il cuore. Di lui mi è rimasto solo un bacio, rubato la sera prima che partisse, preso con la forza, perché era peccato e io non lo sapevo che mi avrebbe spinto con la lingua sulle labbra e sono inorridita. Sono diventata di ghiaccio, ma poi lui ha preso a baciarmi piano piano tutta la faccia, tanti bacetti che mi imbambolavano e ho pensato che mi voleva bene, che era grande e che sapeva cosa fare. Così ho aperto la bocca appena un po' e lui c'è entrato a rimescolarmi tutta. “Ti scriverò” mi ha detto poi, ma io avrei voluto un “Ti amo”. Leggevo i libri di Liala e speravo tanto che andasse come in quelle storie: tante lacrime, tanta attesa, tanto amore, tanta passione.

Non è tornato mai e io sono diventata una ragazza che si sentiva una vedova. Per alcuni anni ho coltivato un dolore adulto, si diventava adulti in fretta allora.

È stato quello che sarebbe diventato mio marito a tirarmi fuori da quel sentimento, facendomi ridere. Con la simpatia mi ha fatta innamorare, con la simpatia mi ha fatta diventare la sua sposa. Era un uomo pieno di sorrisi, con un carattere buono e generoso. Mi diceva “Quanto sei bella! Ma ti rendi conto!” e sbarrava gli occhi come per un miracolo. Io bella non lo sono stata mai, che le caviglie grosse, il sedere basso e gli occhi piccoli in una faccia tonda non fanno certo gran bellezza, però sempre curata, questo sì.

Abbiamo attraversato la vita tenendoci forte e ci sono stati momenti che sembrava di stare sotto una tempesta di grandine, colpi da tutte le parti, e noi a ripararci l'un l'altra come meglio si poteva. Ci siamo voluti bene e abbiamo tirato su due figli, due bravi figli, e abbiamo comprato una casa con un mutuo pesante, che lasciava avanzare ben poco. In vacanza al mare ci siamo andati quando avevo già quarant'anni e siamo rimasti lì davanti alle onde a guardare questa enormità d'acqua, lui con il braccio sulle mie spalle, io con una mano a tenere la sua, come non fosse vero che eravamo proprio noi ad essere proprio lì. E sono sicura, anche se non ce lo siamo detto mai, che avevamo gli stessi pensieri, che andavano e venivano come onde di gioia nella testa. Felici d'essere lì insieme, eravamo, che la felicità spesso è di poche parole ed è fatta di silenzi così densi, che non gli manca nulla.

Quarantasette anni siamo rimasti insieme, poi lui è morto, mentre dormiva, e io me lo sono trovato lì con il viso sereno, con un ultimo sorriso per me, perché non mi spaventassi troppo. È partito sorridendo, come ha vissuto. E io ho pianto tanto, così tanto. È stato un dolore atroce, come perdere una parte del mio corpo, delle mie idee. Poi piano piano il dolore s'è accucciato in un angolo a mugugnare, come un sottofondo che non si smorza. E basta.

La vita era passata, i figli andati. Abitano in due  grosse città, che per andarli a trovare devo prendere il treno, ma sempre meno mi va di buttarmi in mezzo alla confusione delle stazioni, tutti che corrono e sembra un mondo impazzito. Ma i miei ragazzi vengono per le feste, ogni Natale e Pasqua sono qui. E poi ci sentiamo spesso per telefono e sono contenta di saperli a posto, con i loro bimbi così carini, che mi mandano i disegni e nella cornetta le loro vocette mi fanno ridere tanto. La mia vita è fatta, mi dicevo, quello che doveva succedere è successo, ora vivrò questi ultimi giorni  con calma e senza pensare alla morte, perché fa troppa paura, troppa, quand'è così vicina, ormai.

Invece.

L'ho incontrato al supermercato. Un signore vecchio e distinto, con i capelli bianchi e radi, gli occhiali di metallo e la schiena un po' ingobbita, come portasse un invisibile zaino con dentro tutti i suoi anni. Mi ha chiesto gentilmente se sapevo dove stava il caffè d'orzo per la moka e io lo sapevo perché uso proprio quello e allora siamo andati insieme giù per la corsia. E poi ci siamo incontrati e parlati altre volte, cortesemente, come si fa.

Ed ecco cos'è successo: mi sono innamorata! Ommioddio!

Quando lo vedevo mi batteva il cuore, mi imbarazzavo, non parlavo fluidamente e mi scappavano pensieri di carezze, di abbracci e di camminare a braccetto. Lui è affabile e gentiluomo, cosa pensava non si sapeva. Ma cosa c'era da pensare poi, che in due abbiamo 160 anni e un appuntamento con la morte ormai imminente?

Eppure mi sentivo come se avessi avuto diciott'anni. Perché davvero il cuore non invecchia e lui mi era entrato dentro. Sotto la pelle avvizzita, dietro lo sguardo annebbiato, dentro la carne molle, dentro il sangue diventato spesso, dentro il cuore inceppato, è entrato un sentimento bambino. Che vien voglia di dire le solite scemenze degli innamorati, tutti gli “ino” delle affettuosità, tutto il ridere per niente, tutta la voglia di raccontarsi, tutti  i brividi proibiti. Che vergogna.

E poi ieri.

Lui mi ha detto, così, tutto di getto: “Ti dirò una cosa e ti prego di capirmi: voglio dormire con te.” Io ho fatto come un balzetto indietro, come per una scossa. Ma lui ha continuato e ha detto tutto in un fiato: “Ho questa voglia di abbracciarti, di stringerti, di proteggerti. Ho voglia di sentire il tuo calore. Ho voglia di parlare con te sotto un lenzuolo. Ho voglia di baciarti e anche di altro, anche se non so come andrebbe… Ho voglia di essere il tuo uomo e di averti come la mia donna.” Mi guardava, sorridendo appena appena, con un lieve tremore sulle labbra, e aspettava una parola che fermasse quei secondi che passavano pesanti. Io mi ero come persa, giù giù dentro quegli occhi affossati fra le rughe, dentro quell'azzurro annacquato e avevo paura, paura.

Mi è uscito un “Non abbiamo l'età.” E lui, rapido, come se l'aspettasse: “Sì, non abbiamo l'età per mentire, non abbiamo l'età per perdere tempo” e mi guardava, mi guardava, non smetteva di guardarmi. Se avesse smesso di guardarmi sarei potuta scappare, forse cambiare discorso e invece mi teneva legata con quello sguardo. Mi legava e mi stringeva. E il sangue correva correva, aveva di nuovo vent'anni e correva e la pelle fremeva.

Ma nella testa occupava tutto lo spazio un solo pensiero: ho la dentiera. Come si fa ad entrare in confidenza con questi attrezzi di vecchiaia, così intimamente tristi, così svilenti? Non riuscivo proprio a mollare questo pensiero e sentivo la saliva farsi amara.

“Dimmi solo che lo vuoi anche tu” insisteva lui.

Ma io ero intrappolata nella visione di quel momento della sera in cui prendo in mano i miei denti e non mi guardo allo specchio perché ho la bocca tutta risucchiata e sembro una brutta strega delle fiabe. C'erano lacrime pronte a scappare nell'angolo degli occhi, lacrime di tristezza per i denti andati e gli anni andati e l'imbarazzo di un corpo appassito. Allora ho sospirato un triste: “Ma...”. Lui subito mi ha stretto forte le mani e ha sussurrato soltanto: “Lo so, lo so” e si è chinato ad appoggiarmi un bacio sulle labbra. Delicato come una debolezza, forte come una certezza.

S'era fatto tardi e la panchina era fredda, ma lui aveva il mio viso fra le mani e continuava a baciarmi con la sua vecchia bocca odorosa di mentine. E faceva caldo, un caldo tiepido tiepido.

Era un bellissimo tramonto.