Quinta edizione 2009 • segnalato prima categoria

Al cancello degli immortali

Katia Franzoso

Katia Franzoso

Sono nata il 21 giugno 1991 a Cles (TN) e frequento il quinto anno del Liceo Scientifico "B. Russell”. La lettura e la scrittura sono le mie passioni e sogno di diventare, un giorno, scrittrice. Ho vinto il terzo premio nella III edizione del Concorso Letterario "Ora ti racconto…” organizzato dalla Biblioteca e dal Comune di Cles e il secondo premio nella IV edizione. Amo molto anche la scienza, per questo mi considero una "mente dualistica”. In realtà, sono davvero poche le cose che non mi affascinano.

IL RACCONTO

14 marzo 1928

Io ero lui e lui era me. Dove c’è stato lo stacco, la frontiera che ci ha separati?
La prima volta che lo vidi eravamo due ragazzini. Erano i primi giorni di College ad Eton. Ci incontrammo in un corridoio, ci lanciammo uno sguardo. Cyril Connolly. Lo conoscevo di vista, entrambi provenivamo dal collegio St. Ciprian ed avevamo vinto una borsa di studio per Eton. Era grassottello, pallido, tarchiato – il mio opposto, dal punto di vista fisico – ma quei dettagli non li notai. Notai il suo sguardo. Così, nel giro di un istante, capii l’importanza delle cose che ci univano.
Non so nemmeno io come lo compresi. Fu un’intuizione improvvisa, chiara e tangibile. Vidi il mio stesso sguardo nei suoi occhi, vidi la mia espressione perplessa sul suo volto. Nemmeno ora so spiegarmi cosa successe: forse in lui, semplicemente, non vidi la superbia, la tanto temuta superbia dei rampolli di Eton.
Il giorno seguente a quel nostro primo incontro frettoloso, ci trovammo a fianco a fianco durante l’ora di letteratura. Più volte aprii la bocca per dirgli qualcosa, ma un’insolita timidezza mi bloccava. Cercai qualche frase intelligente da dire, senza riuscirci: la mia mente era sgombra.
A salvarmi da quella situazione imbarazzante e a cancellare la mia insicurezza, arrivò una pallina di carta, lanciata a Cyril con una cerbottana. Mi girai e lanciai al malcapitato ragazzo che l’aveva tirata alcuni improperi non proprio amichevoli.
Cyril era sbiancato: – Lasciali perdere, ti prego. È tempo perso. Lanciai un’ultima occhiataccia al ragazzo.
– Anche tu hai dei problemi con loro – constatai rivolgendomi a Cyril. Lui mi guardò per un attimo corrugando la fronte, poi sorrise. – Relativamente. Hanno anche dei lati positivi. Ad esempio, mi offrono lo spunto per delle interessanti riflessioni sulla natura umana. Non molto consolanti, devo dire.
Sorrisi: – Mi auguro che tu possa smentirle presto.

In quell’istante un’altra pallina di carta mi colpì alla nuca. Con un immenso sforzo di volontà, rimasi immobile al mio posto e continuai la conversazione con Cyril.
– Dicevamo?
Lui rideva sotto i baffi della mia studiata impassibilità.
– Non prendertela. Davvero, sono solo un po’ presuntuosi.
– Si può sapere perché ce l’hanno con te?
– Credo che il mio aspetto sia fonte di divertimento, per loro. No, non arrabbiarti. La colpa è gran parte della loro educazione.
– Facile scusante.
– Non sto scherzando, pensaci. Sentirsi ricordare da tutti la propria superiorità non fa bene. Si finisce per sovrastimarsi, con ovvie conseguenze.
Sbuffai: – Per me vale il contrario. Neanche sentirsi dire che non si è degni di un posto come questo fa bene.
Mi guardò intensamente.
– Ma tu lo sei.
Fummo zittiti dal professor Huxley.

Da quel giorno diventammo amici. Veri amici. Avevamo una cosa in comune: un amore profondo e sincero verso la letteratura.
Ci divertivamo a comporre racconti e poemi e a commentare – con un certo sarcasmo – quelli che leggevamo sui giornali. Cyril, per quest’ultima attività, aveva una predisposizione naturale.
Ma non era solo la penna ad unirci. La nostra profonda comunione d’idee, il nostro modo di pensare e d’essere, mi misero in testa la convinzione che Cyril ed io fossimo, in qualche maniera, come due gemelli separati dalla nascita. Due animi affini cresciuti in condizioni differenti (io in India, dove mio padre era stato ambasciatore, lui nella campagna inglese) ma con una simile predisposizione.
Mi sbagliavo.
Neppure ora capisco dove, ma il mio ragionamento doveva avere un qualche errore di fondo. Solo così posso spiegarmi quello che successe in seguito. Solo così posso spiegarmi perché, ora, io mi trovo a Parigi, senza un soldo, lavorando come sguattero in un ristorante. Quando lasciai gli studi, era per conoscere la vita vera, per seguire le orme di mio padre. India, Birmania, l’arruolamento nella polizia. Le ho conosciute, ma non credo sia la vita vera. Non credo che potrei odiare quel mondo più di quanto lo faccia già.
Scrivo. I miei libri vendono meno di un ricettario.

Dov’è la frontiera, il confine che ci ha divisi? Cos’ha lui che io non ho? Cyril Connolly si è laureato brillantemente, lavora per il giornale "New Statesman” ed è un critico letterario di successo. È solo venticinquenne, ma ha una rosea carriera davanti.
Ad Eton, il futuro si dipanava uguale per entrambi, cos’è cambiato da allora?

21 gennaio 1950

La radio ha appena annunciato la notizia della morte di Eric. Ad Eton eravamo stati amici. E anche dopo, nonostante ci fossimo visti poco negli ultimi anni. Ma ora lui è morto, ed io rimango solo con il mio dubbio.
La domestica mi guarda con aria preoccupata:
– Tutto bene, signor Connolly?
Mi accorgo di avere le lacrime agli occhi, e me le asciugo in fretta.
– Sì, sto bene. Ho appena appreso della morte di un mio vecchio amico. Lei annuisce, comprensiva:
– Lo scrittore. L’ho letto sul giornale.
Lo scrittore: aveva sempre avuto talento, fin da giovane. Anch’io avevo talento. Ma, ad un certo punto – non saprei neanche dire quando – qualcosa d’invisibile ci ha divisi. Lui ha cominciato a girare il mondo, io a scrivere per un giornale e a lavorare come critico. Tutti si aspettavano qualcosa da noi: il Capolavoro, il libro che avrebbe cambiato le nostre vite. Il destino sembrava voler favorire me, e così credevo anch’io. In effetti, a cinquant’anni, sono uno dei critici letterari più apprezzati d’Inghilterra.
Tra qualche decennio, quasi nessuno si ricorderà della mia esistenza. È facile criticare le opere degli altri, trovare gli errori più nascosti, difficile è scriverne di proprie.
"Ehi, Connolly, scrivi?” Mi chiede la gente. Cosa rispondere? Certo, ho in mente un’idea brillante, aspettate qualche mese e pubblicherò il mio capolavoro…
Come ha fatto Eric. Lui lo ha scritto davvero. Lui non solo sarà ricordato tra qualche decennio, ma anche tra qualche secolo. Le sue ultime opere sono geniali.
Io non riesco neppure a trovare un’idea mediocre, figuriamoci una geniale. Il lavoro, gli amici, gli altri letterati, mi fanno pressioni affinché io scriva qualcosa di grande. Ma non sono in grado.

Eric ed io non eravamo simili come credevo: lui era un genio, io sono solo un letterato mediocre.
Uno scrittore senza un libro.
Esco sul balcone, guardo la città sottostante: Eric è morto, devo farmene una ragione. Mi piacerebbe poterlo vedere un’ultima volta, potergli parlare. Chiedergli qual è la differenza tra lui e me. Soprattutto, mi piacerebbe chiedergli se c’è sempre stata, o se il suo genio è nato come conseguenza del suo vagabondare. Non credo. C’è sempre stata, ero io a non accorgermene.
Forse anche lui, una volta, credeva che noi due fossimo uguali. Sì, lo pensava, lo leggevo nei suoi occhi e nei suoi gesti d’amico sincero. Soffoco un urlo impotente.
Dannazione, Eric, perché tu sì ed io no? Va bene, ho una bella casa e un bel lavoro. Una vita graziosa, direi. Ma non ho il tuo genio. Sono una persona come tante, mentre tu sei incoronato del lauro dei poeti.
Tu hai fatto qualcosa di grande per il mondo e che tutti ricorderanno, mentre io, dalla mia bella casetta, faccio righe rosse sugli scritti degli altri nascondendo l’assenza dei miei.
T’invidio, dopotutto.
Molti riderebbero. Forse mi prenderebbero per pazzo. Ma come, sei ricco e stimato e ti lamenti? Vorresti fare la vita, la dura vita che ha fatto Eric? Lasciatemi spiegare, risponderei. Se foste, come me, degli scrittori in potenza, bramosi di diventarlo in atto, se viveste tra piccole delusioni quotidiane, divorati dall’accidia, capireste.
Scrivere qualcosa di grande è tutto ciò che voglio, ma non lo avrò. Morirò nella tediosità della mia solita vita, senza aver raggiunto uno scopo, e il mio nome si perderà nella nebbia dei secoli. Non avrò fatto niente, nella mia esistenza, che valga la pena essere raccontato. Soprattutto, non capirò mai la differenza tra me ed Eric.
Può un divario così grande e importante restare nascosto per anni? Ho sempre pensato che un animo eccezionale trasparisse, facendo come risplendere il suo possessore. Eric era brillante certo, ed aveva un’intelligenza fuori dall’ordinario. Non che non mi aspettassi qualcosa di grande da lui. Tuttavia, non mi aspettavo questa barriera tra noi, questo confine insormontabile che lo ha ammesso nella cerchia degli immortali, lasciando me sul cancello. Proprio lui che soffriva per le sue origini modeste.
Sotto di me la città, lentamente, sta venendo a conoscenza della sua morte.

Anzi, no.
Per loro Eric Arthur Blair non è morto, perché non è mai esistito. Solo io, con pochi altri, lo conoscevo veramente. Il mio amico si era celato al resto del mondo dietro lo pseudonimo che usava per scrivere.
Se le differenze tra me ed Eric sono molte, quelle tra me e George Orwell sono incolmabili.