La nona edizione 2017 • segnalato sezione inediti

Ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani

Cinzia Piciocchi

Cinzia Piciocchi

Nata nel 1973 a Milano, ha sempre vissuto a Trento. Docente universitaria, è la prima volta che partecipa ad un concorso letterario.

IL RACCONTO

Che una volta a settembre era più fresco è vero. Perlomeno nei miei ricordi: l’estate finiva e io ero contenta. Odiavo agosto: gli amici del cortile sparivano. I negozi chiudevano. Alla TV non c’erano più i miei programmi preferiti: tutto diventava lento, assolato, faticoso. Di vacanze se ne facevano poche, per lo più mi annoiavo.
Poi le sere arrivavano prima, comparivano le nuvole e tornava il fresco. Si andava in cartoleria, si compravano i quaderni: sentivo l’odore della scuola e diventavo allegra. Non mi entusiasmava l’arrivo dell’estate: io aspettavo il primo giorno di scuola.
Dopo la seconda elementare ci eravamo trasferiti da un paesino ad un altro: eravamo andati in collina. Nuovi compagni di classe, nuovi maestri, nuova scuola insomma. Non ero spaventata, ero curiosa. Come sempre ero emozionata: la sera prima dell’inizio della scuola era difficile addormentarmi. Era tutto pronto, la cartella preparata.
Che le cartelle non erano clementi lo sapevo. Assomigliavano a valigie in miniatura, con cinghie sottili che ti timbravano la pelle anche dopo tragitti brevi. Ma era la mia “ventiquattrore”, con dentro le cose personali che gestivo io e andava bene così. In compenso i libri erano pochi: c’era il sussidiario, con di tutto un po’ e i quaderni delle Regioni d’Italia, che erano piccoli e colorati. Non pesava così tanto la cartella.
Quel giorno di settembre ci alziamo per tempo e alle 7.50 siamo davanti alla scuola. È bella, mi piace: è bianca, pulita, l’hanno appena ingrandita per accogliere più bambini, quelli che come me nel 1981 frequentano la terza elementare e tutti gli altri.  
La scuola però è chiusa. È strano, mancano dieci minuti, dove sono tutti?
Guardo mamma: hai sbagliato. Non è oggi. “Ma sì che è oggi, c’era scritto anche sul giornale!”
Allora hai sbagliato l’orario, come hai potuto. Lo sai quanto ci tengo. “Ma no, cosa dici. Da sempre la scuola comincia alle otto”.
Va bene, ma allora dove sono gli altri?
Ci guardiamo tutti e tre, ma nessuno parla. Il cancello è chiuso, non si può neanche arrivare al portone. Non passa nessuno, neppure le macchine. Nessuno a cui chiedere. Dov’è il mio primo giorno di scuola?
Aspettiamo. Comincio a formulare ipotesi. Mi hanno insegnato ad essere sempre razionale. Calma. Ipotesi numero uno: il giorno è sbagliato. Se non c’è nessuno, magari è perché la scuola comincerà più avanti. Però il giornale non si sbaglia, non su queste cose almeno. E poi ne ho parlato con gli amici, è oggi il giorno. Ipotesi numero due: l’orario è sbagliato. Sono già tutti dentro. No, entrano e chiudono il cancello, non ha senso. Allora cominciano più tardi, però è vero che la scuola da sempre comincia alle otto, dopo sarebbe strano. Ipotesi numero tre: l’edificio non è questo. Ma ragiona: in un paesino così piccolo ampliano la scuola e poi non la usano? Magari non era pronta. A vederla sembra di sì.
Otto e venti, non c’è ancora un’anima. Quando non trovo una spiegazione divento ansiosa, ancora oggi mi succede. Non chiedo più dove saranno gli altri, ma li guardo tutti e due e aspetto una risposta che non arriva perché non c’è. Papà si accende una sigaretta. Mamma sta ferma in piedi e guarda l’orologio.
Otto e quarantacinque, è chiaro che questo non è il primo giorno di scuola. È successo qualcosa che ancora non so, o non capisco, ma non è il mio primo giorno di scuola questo è quanto.
E poi la vedo in lontananza. La mia scuola sta arrivando, lentamente. Ci sono tutti, ma proprio tutti. Il Preside, gli insegnanti, i miei futuri compagni, i loro genitori, avanzano solenni dietro a una figura alta che ondeggia in una tonaca nera, a tratti sollevata dal vento. Ai lati in prima fila ci sono due bambini, forse un po’ più piccoli di me, che dondolano gli aspersori dell’incenso, con le tuniche bianche ricamate e i capelli ancora stropicciati di sonno. Composti e silenziosi. Non c’era bisogno di avvisare nessuno, lo sapevano già tutti e poi forse la comunicazione sarà stata affissa in canonica o all’oratorio.
Mamma sbuffa: “Ma pensa te, roba da matti”. Papà la rimprovera con lo sguardo e tace.
Ti guardo anch’io.
Che non ti integrerai in questo territorio lo sappiamo tutte e due. Vieni da una grande città, sei atea, socialista; cosa vuoi trovare: terreno ostile. Rimarrai anche dopo, incatenata da me che rappresento gli affetti. Raggiungerai poi a un certo punto un modus vivendi; ma non parliamo di integrazione. Non era fattibile. Hai la mia solidarietà, per quel che conta.
Siamo qui in tre, da soli davanti al cancello e finalmente la scuola sta arrivando da me. C’è tanto di quello che siamo, in quest’attesa paziente e in disparte.
Che non eravamo tutti presenti all’ora di religione, l’ho ricordato in seguito. Ho recuperato l’immagine vaga di una compagna che esce dalla classe; crede in qualcos’altro. Esce ma non me ne accorgo mai, è un’assenza sussurrata, quasi furtiva: mi giro e non c’è più. Poi ritorna. Ti ho rincontrata dopo tanto tempo e ti sei fermata a parlare, mi hai toccato un braccio e mi hai detto: “Puoi solo fartene una ragione”. Sono parole dirette e sincere, una compassione laica senza pietismi che mi dà conforto.
Continuiamo ad aspettare. Papà si accende una sigaretta. Un’altra.
“Che se ripenso a tutte quelle che ti sei fumato… quando ero piccola te le nascondevo ma non serviva a niente…”  “Quanto chiacchieri. Sta scendendo la flebo?”
“Sì, scendono le gocce.” “Controlli che non si fermi?”
“Ma perché si dovrebbe fermare?” “Tu controlla, io sono stanco.”
“Dormi papà, io resto qui”.

C’è vento, è fresco.
Guardo in su verso mamma: “Mi piace la scuola.” “Sì, lo sappiamo”.
Guardo papà: “Anche voi mi piacete.” Mi accarezza la faccia: “Meno male”.
Che non ci saresti stato sempre, l’ho capito solo dopo. Ma adesso non importa, ho otto anni e la mia scuola mi ha raggiunto. Suona la campanella e il portone si apre.
Finalmente si comincia.