Settima edizione 2013 • segnalato sezione inediti

Paletti bianchi

Fabio Pasian

Fabio Pasian

Nato in Brasile nel 1953, Fabio Pasian vive a Trieste, dove lavora come astronomo nel campo delle tecnologie informatiche. I suoi racconti brevi, quasi delle istantanee in cui tratteggia i suoi personaggi colti in un particolare attimo della loro vita, hanno ricevuto riconoscimenti a premi letterari e sono stati pubblicati nelle rispettive antologie. Ha pubblicato il racconto "Fanes" con le Edizioni Antiquità (2009), il romanzo breve "Letto 8B" con Aletti Editore (2010), "I cerchi del tronco - Due racconti di formazione" con Montedit (2012) e "Al di là del vetro appannato" una raccolta di 34 racconti con Beit Editore (2013). "Letto 8B" ha ricevuto il terzo premio alla VI Edizione del Premio Letterario Internazionale "Priamar".

IL RACCONTO

“Non sarebbe più logico far correre il confine lungo il fiume?”
La voce del capitano Crovato era risuonata, un po’ stridula, nell’ampia sala del comando territoriale di Gorizia dell’Armata Jugoslava. Il colonnello Brzić, il tenente Radovac e il capitano Wilson alzarono la testa dall’enorme tavolo dove stavano dispiegate le carte topografiche della zona. Anche l’interprete, un giovane con spessi occhiali di tartaruga, lo guardò con aria interrogativa. Crovato gli fece un cenno e quello tradusse, prima in serbo e poi in inglese.
Wilson alzò gli occhi al cielo. Il colonnello, invece, rispose qualcosa, secco, e Radovac annuì.
“Per loro è più semplice tracciare una linea retta tra i due punti fiduciali, il cippo e la vedetta a quota 254. Il cartografo ha confermato” disse l’interprete.
Crovato non si diede per vinto.
“Ma così non ha senso” disse. “Quella è una zona rurale, i contadini avranno i campi divisi in due dalla linea retta che state tracciando. Dovranno attraversare il confine decine di volte al giorno. Il fiume invece delimita naturalmente i campi, ed è distante al massimo duecento metri, nel punto in cui è più lontano”.
La traduzione fu interrotta da una frase piena di collera del colonnello Brzić.
“Dice che potevate vincerla voi, la guerra. E che allora avreste tracciato voi i confini come meglio vi piaceva”. Il giovane interprete occhialuto aveva in volto un’espressione indecifrabile, come di scherno represso. “Le ha anche detto di tacere, visto che lei è qui solo come testimone”.
Il capitano Wilson gli rivolse un’occhiataccia. Crovato si strinse nelle spalle.

Anche quella mattina Bepi Macoratti si era alzato presto. C’erano un sacco di cose da fare, nel podere, e nessuno che lo potesse aiutare. La guerra si era portata via dapprima i suoi due figli sul fronte russo, e poi sua moglie a causa di un’epidemia. Era rimasto solo, a mandare avanti quella sua piccola proprietà: cinque ettari di terreno tra il fiume e la strada per la costa, la piccola casa in pietra, l’orto, la stalla con due mucche. Anzi, due mucche e una vitella: l’anno prima aveva fatto accoppiare la Nerina con un toro da monta e aveva tenuto la vitellina, nella speranza che potesse diventare anche lei una brava mucca da latte.
Aveva conservato quei suoi modesti averi con tutte le sue capacità: un miscuglio di duro lavoro, fermezza nel difendere i suoi diritti, mediazione quando doveva trattare con i potenti. In quel periodo in cui il tallone del vincitore poteva facilmente schiacciare qualsiasi cosa gli si opponesse, la capacità di mediazione era diventata la sua virtù più preziosa. Non gli veniva facile, peraltro: Bepi era un brav’uomo, ma un po’ rigido, difficile da trattare quando era convinto delle sue ragioni. Ma per tutta la vita si era dovuto adattare: dapprima nei lunghi anni del fascismo, poi in quel periodo in cui erano i militari a dettare legge. Ma sia il fascismo che la guerra erano ormai finiti, e le cose sarebbero presto cambiate, si diceva.

Bepi era intento a strappare le erbacce che si erano insinuate tra le piante di pomodoro nell’orto, quando li vide. Erano una mezza dozzina di soldati, nell’uniforme marroncina dell’esercito jugoslavo, che erano entrati nel suo campo. Tre tenevano il mitra imbracciato, gli altri erano intenti a falciare l’erba medica, uno sovrintendeva la situazione.
“Ma cosa diavolo state facendo, nel mio campo?” gridò Bepi, avvicinandosi.
I tre soldati con il mitra si voltarono verso di lui, gli puntarono le armi contro, uno gridò “Stoj!”. Bepi si fermò immediatamente, non aveva nessuna intenzione di fare l’eroe. Avrebbe cercato di capire cosa stava succedendo, confidando nella sua minima conoscenza di sloveno. Lui era di origine friulana, ma all’osteria aveva occasione di scambiare qualche parola con contadini di origine slovena, ci giocava anche a carte qualche volta. Qualcosa aveva imparato.
Si avvicinò il capo del gruppetto, un sergente. Gli disse qualcosa, in tono deciso ma sostanzialmente gentile. Ma non parlava in sloveno, doveva essere serbo, e Bepi non capì molto, solo due parole: “ordini” e “confine”. Poi ritornò con gli altri.
Quando i soldati ebbero finito, nel campo di erba medica, a un’ottantina di metri dal fiume, c’era una striscia falciata dalla larghezza di circa dieci metri. In mezzo alla striscia, a distanza di una ventina di metri uno dall’altro, erano stati piantati dei paletti bianchi.

Nel pomeriggio si recò al comando della guarnigione alleata, che svolgeva le funzioni di polizia. Sul portone c’erano soldati neozelandesi armati di tutto punto, ma all’interno il personale addetto a comunicare con le persone era italiano.
“Cosa vuole?” chiese distrattamente il tizio dietro il bancone all’ingresso.
“I soldati jugoslavi hanno falciato una striscia del mio campo e ci hanno piantato in mezzo dei paletti bianchi” rispose Bepi.
“Ah, il solito problema” fece l’altro, annoiato. “Entri in quella stanza, la prima a destra. Verrà qualcuno e darà a tutti una risposta”.
Entrò nello stanzone. Era gremito di persone come lui, vestite modestamente. Alcune le conosceva: erano contadini, alcuni dei poderi vicini al suo. Si appoggiò al muro, tra due finestre. Aspettò. Nella stanza continuavano ad entrare contadini.
Quasi due ore dopo, entrò un giovane ufficiale vestito nella divisa dell’esercito neozelandese e un uomo in borghese che Bepi conosceva, in quanto aveva fatto parte dell’ufficio del Podestà negli ultimi anni prima della caduta del fascismo.
“Ecco, cambiano i regimi, ma i furbi galleggiano sempre” pensò lui.
L’uomo in borghese prese la parola.
“Parlo a nome del tenente Swindley, qui presente, per darvi spiegazioni e istruzioni sulla situazione che vi interessa. Il comando militare alleato che governa questa provincia ha preso accordi con il comando territoriale dell’Armata Jugoslava per la suddivisione del territorio tra i due comandi. Tra ieri e oggi questa suddivisione è stata resa operativa mediante il tracciamento di una linea di demarcazione, definita da una serie di paletti bianchi piantati nel terreno. Il territorio a ovest di questa linea ideale è sotto la nostra giurisdizione, il territorio a est sotto la giurisdizione dell’Armata Jugoslava. Tutti i cittadini che vivono nella zona controllata dal comando militare alleato sono obbligati a non varcare, ripeto a non varcare” disse, dando particolare enfasi alla parola non, “la linea di demarcazione. L’Armata Jugoslava considererà qualsiasi superamento della linea di demarcazione come un atto ostile”.
“Ma io devo coltivare i miei campi, anche se stanno oltre i paletti bianchi!” disse una voce in mezzo alla sala.
“I campi oltre la linea di demarcazione non possono più essere considerati vostri” disse l’uomo in borghese. “Sarà l’amministrazione jugoslava a decidere sulla proprietà di quelle terre. E voi non siete autorizzati ad accedervi. Ripeto: non superate quei paletti bianchi”.
Mentre dai presenti si levava un brusio di voci, l’ufficiale e l’uomo in borghese lasciarono la sala.
Bepi bestemmiò sottovoce. Aveva difeso il suo podere da insidie e attacchi esterni, dalla pestilenza, dalle malattie delle piante, superando la perdita dei suoi cari. Ed ora degli stupidi paletti bianchi ne sancivano lo smembramento.

La minestra di cereali sobbolliva nella pentola di alluminio appoggiata sul fuoco dello sparherd. Bepi guardava fuori dalla finestra; osservava, all’intensa luce della luna quasi piena di quella notte, il suo campo di erba medica, la striscia falciata, e quei maledetti paletti bianchi.
D’improvviso gli parve di vedere un’ombra muoversi. Focalizzò meglio: nel campo c’era una mucca. Tolse la pentola dal fuoco, e aprì la porta posteriore della casa. In effetti, in mezzo al campo stava Nerina, che brucava pacificamente a una ventina di metri dalla stalla. La porta della stalla era stata forzata, la mucca doveva averla spinta con particolare energia, e i battenti avevano ceduto. Avrebbe riparato al danno il giorno dopo.
Scese nel campo e, mentre tirava la cavezza di Nerina per forzarla a ritornare nella stalla, si avvide al chiarore della luna che anche la vitella era uscita. Si era anzi allontanata parecchio, e si era avvicinata alla riva del fiume, superando i fatidici paletti bianchi. Bepi bestemmiò. Entrò nella stalla, legò Nerina a una delle travi portanti, e ne uscì con una fune per poter recuperare la vitella.
Arrivato all’altezza di un paletto bianco si fermò e osservò la situazione. La vitella si era spinta sino alla riva al fiume e brucava l’erba che cresceva sul bordo, che in quel punto era particolarmente cedevole. La situazione era seria, il bordo poteva franare e la vitella sarebbe potuta finire nel fiume. Doveva intervenire, e riportare indietro l’animale.
Mosse risolutamente in avanti, a passo spedito. Avrebbe fatto in fretta, nessuno si sarebbe accorto di nulla. Invece.
Stoj!” urlò una voce dal boschetto al di là del fiume.
Bepi si fermò immediatamente, cercando di individuare i soldati tra gli alberi. Inutilmente.
“Vado solo a prendere la mucca” gridò in sloveno, riprendendo a camminare in avanti. La vitella infatti si era ulteriormente avvicinata alla riva del fiume, ora era veramente in pericolo.
Dal boschetto urlarono qualcosa che Bepi non capì.
“La mucca è in pericolo” gridò lui. “La prendo …”
La frase rimase così, interrotta a metà da un colpo secco. Bepi cadde all’indietro, senza un lamento. Rimase steso in mezzo all’erba medica, il volto illuminato dalla luce di quella luna quasi piena.

I paletti bianchi rilucevano, quasi fluorescenti, simbolo tangibile di quella ennesima tragedia della stupidità umana.

Con l’accordo di Udine del 3 febbraio 1949 furono create tessere di frontiera che permettevano ai proprietari e conduttori di poderi agricoli di attraversare un numero illimitato di volte la linea di demarcazione tra Italia e Jugoslavia. Dal 20 dicembre 2007 la Slovenia si è unita alla zona Schengen, e ora per attraversare quella linea di demarcazione non è più necessario esibire alcun documento.