Sesta edizione 2011 • segnalato sezione inediti

La grande muraglia

Giovanni Orelli

Giovanni Orelli

È nato a Bedretto, Svizzera, il 30 ottobre del 1928. Scrittore e intellettuale svizzero, ha studiato a Zurigo e a Milano, dove ha ottenuto la laurea in filologia medioevale e umanistica. Ha trascorso gran parte della sua vita a Lugano, dove - fino all'età del pensionamento - è stato professore nel locale liceo cantonale. La sua carriera letteraria inizia nel 1965 con il romanzo L'anno della valanga (Premio Veillon). Nel 1972, con il romanzo La festa del ringraziamento, Orelli è insignito del Premio Schiller. Nel 1997 ha ottenuto il premio Gottfried Keller per l'insieme della sua opera. Considerato un ottimo prosatore, il leventinese ha percorso anche la via della poesia, sia in lingua che in dialetto (dialetto di Bedretto). Politicamente impegnato, esponente dapprima del Partito socialista autonomo e collaboratore del suo settimanale Politica nuova, è stato per il Partito socialista deputato al Gran Consiglio del Canton Ticino per una legislatura.

IL RACCONTO

La novità numero uno della politica nel Cantone  era la Grande Muraglia. Che quelli della Lega, giusta una geniale idea del loro Presidente a Vita, volevano costruire a Chiasso e distretto quale risposta al famigerato accordo di Schengen sulla libera circolazione  tra i paesi che avevano dato la loro adesione all’Unione Europea. Ma poteva essere controproducente, impolitico chiamarla in pubblico Grande Muraglia, perché il copyright sul nome l’aveva la Cina. Eccolo, il grande, il magnifico muro che avrebbe dovuto impedire a migliaia e migliaia di profughi e rifugiati (e clandestini) d’Africa via, di invadere il nostro bel Cantone. Ecco che l’avrebbero chiamato semplicemente muro, col nome di quello, defunto, di Berlino. Respinto anche l’accrescitivo muraglione, che nel dialetto della  montagna – disse uno dalla barba bianca –
  si dice frècia. E aggiunse, pedagogicamente volgendosi a un ragazzino impegnato con l’indice in entrambe le narici (perché in Svizzera ci sentiamo un po’ tutti continuatori di Pestalozzi e Rousseau, cioè pedagogisti, e non solo gli scrittori, come ha detto con benevolo rimprovero Robert Walser):
- Ascolta bene: qui c’è un paesino di montagna. Mille metri più in su c’è una grande massa di neve che spinge per scendere nella pace del suo fondovalle.  E molte volte scende. E’ la valanga. Per proteggere le case si costruiva il muraglione o frècia. La valanga è il male, è l’invasore, la forza estranea che porta disordine e morte. La frècia è il bene, è una difesa contro il male. Ma la parola frècia, come  tantissime parole, può significare più di una cosa. Ti faccio un esempio. Una volta, quando un giovanotto di fuorivia veniva in montagna per sposare una ragazza del paese, nel momento in cui gli sposini uscivano dalla casa comunale dove erano stati uniti in matrimonio, si trovavano chiusa la strada. Una muraglia, una frècia, che non di sassi era fatta, ma da persone del paese. Che recitavano una farsa elementare: nel rispetto di regole antiche, dettate dalla saggezza degli antichi, non era consentito a gente di fuorivia di portarsi via una ragazza, una vera e propria ricchezza del paese. C’era un solo rimedio. Che parenti e invitati degli sposi mettessero mano al borsello e pagassero, per gli sposi, un po’ di pedaggio. Pedaggio per chi? Questo era un segreto. È che con una parola come frècia  (una bevuta non proprio federale ma, comunque, non si sa mai) si può passare dalla farsa alla tragedia. Dalla festa per gli sposi alla valanga.  Si può saltare dalla muraglia contro la valanga alla muraglia contro gli stranieri. Non solo quelli che stanno a due passi dalla frontiera, detti appunto i frontalieri, che vengono la mattina presto a lavorare da noi e tornano la sera a casa. Non solo quelli, ma anche i bisognosi di continenti vicini e lontani. Quegli stranieri insomma che bussano da noi per trovare pace e libertà, e un lavoro che dia da mangiare alla famiglia. Non si può incoscientemente ospitare mezzo mondo, ma non si può sempre ripetere che la barca è piena, aprendo le porte solo a chi ha carte buone nel portafogli o a chi è strettamente utile per la nostra economia.

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- Ma tu che parli così bene del mondo intero, come fanno gli intellettuali di mezzo mondo che parlano bene e poi, con quel che segue. Ma li conosci tu dal vivo quelli del Ghana, dell’Afghanistan, quelli di san Domingo o di Croazia che battono alla nostra porta?
-Poco.  Li  conosco poco. Non sarà il soggiorno di due settimane in Cina che mi autorizza a dire che conosco i cinesi. Per conoscere un uomo bisogna stargli a lungo alle calcagna. E gli uomini sono diversi uno dall’altro. Pochissimo ho visto e so di Africa, dell’America latina. Ma ho pur letto il volto di alcune madri africane alla ricerca di un porto da noi. Per sottrarre alla tempesta i loro figli. Donne che pure avevano stampata sul volto la incancellabile nostalgia della propria casa. Come la moglie di Lot…-
- La moglie di Lot? E chi era costei? –
- Ma tu non l’hai letta la Bibbia? –
- No, e con questo? –
- Con questo non conosci un esempio di donna sommamente infelice. La moglie di Lot, che non ha nemmeno un nome che sia un nome suo, ha solo una casa, e anche quella è verosimilmente la casa di Lot, ma i ricordi, gli odori della casa sono suoi: della moglie di Lot. Un brutto giorno riceve, dall’alto, l’ordine di lasciare la casa. E’ la prima volta in vita sua che deve abbandonarla. Riceve anche l’ordine di non voltarsi indietro a guardarla. Ma il richiamo della casa è più forte di quell’ordine. E la moglie di Lot si volta. Per questo il Dio dell’Antico Testamento la trasforma in   statua di sale.-
Gli era venuta in mente la moglie di Lot perché era stato colpito da un particolare di quel che gli raccontò una volta un commissario di una commissione per le naturalizzazioni. Si faceva, garantiva il commissario, un lavoro coscienzioso. Si guardavano in particolare i rapporti di polizia su condotta, integrazione nel paese, conoscenza della sua storia, delle sue istituzioni politiche eccetera. Il commissario ricordava i rapporti di un funzionario di città che, certamente con la pia intenzione di giovare al postulante, aggiungeva con zelo eccessivo: “Non ha più nessun rapporto con il paese di origine”. Questo è un errore bello e buono. Come si può dimenticare la propria patria? Si chiami essa Svizzera o Cuba o Marocco o quello che vuoi.
- Che cosa vuol dire patria? – chiese uno spilungone col naso a civetta. 
- Difficile dirlo. Una delle donne più intelligenti del secolo balordo, Hannah Arendt, che bene conosceva l’orrore del nazismo e il bene della democrazia, ebbe a dire che la patria era per lei la lingua imparata nell’infanzia. Un filosofo di tanti secoli fa, Seneca, disse che, per il saggio, ogni luogo è patria. Un don Abbondio dei Promessi Sposi, che in certe cose somiglia un po’ tanto a certi svizzeri, don Abbondio, come l’elegantissimo Cicerone, sentenziava che la patria è dove si sta bene.

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Non ci sono solo le muraglie tra Stato e Stato o i muri della stupidità e dell’egoismo, quelli della difesa: e tanti altri. Ci sono anche i muri eretti dalla miseria. C’era una volta (infinite volte) una donna rimasta presto vedova. Le morì precocemente anche l’unico figlio. In illo tempore, in quei tempi, l’Assicurazione Vecchiaia e Superstiti vagiva ancora nella cuna. Quel germoglio delle viscere sue, di quella madre, era morto celibe, non era di conseguenza (le conseguenze della vita!) giunto all’abito scuro delle nozze. Che poi i paesani poveri di una volta si ritrovavano addosso, da altre mani accomodato, per la seconda e definitiva volta, il giorno del funerale. Che fare?  La non fortunata madre, avesse conosciuto Dante, ma non lo conosceva per niente, e non per colpa sua, avrebbe potuto recitare un suo poscia più che il dolor potè il digiuno. Digiuno, nel caso della vedova, è quasi esagerato. Ristrettezza sì, e vasta come il silenzio della solitudine. La tazza slabbrata, fin dai tempi del Poldo della Maiolica adibita al pane-e-latte della colazione, e a volte anche del desinare e della cena e poi, tazza e vedova già in veneranda età, promossa, la tazza, a rifugio delle poche palanche, non raccogliendo ora quasi più niente, rendeva molecolarmente, non ecumenicamente, drammatica la domanda di Lenin: Che fare? La sua infima tazza del Poldo della Maiolica, non la Gran Tazza dell’Unione Banche Svizzere, UBS, ripeteva tutti i giorni la domanda: che fare? O i bei tempi in cui alla sera bastava rispondere un ora pro nobis alle litanie dei santi! Parevano morti anche tutti i santi. Non per animo gretto, sì per paura, denutrizione, incertezza quotidiana sul conto del futuro, sulle muraglie erette dalla miseria, quella madre decise di mettere al suo unico figlio, nell’ultima vestizione, i panni del soldato. Il grigioverde del famoso esercito svizzero. Ai vicini che, sottovoce, amichevolmente, paurosamente, la mettevano in guardia: ma non si può, non si potrebbe, ma se ti prendono, attenta! Se ti fanno storie, ti chiamano dalla giustizia, se se se se se…. Quasi non avesse altre difese sopra e sotto la pelle secca, rispondeva con lacrime bugiarde: - Ma gli piaceva così tanto fare il soldato, così tanto!-
E giù a piangere, senza economia.