Seta di guerra
Pino PacePino Pace
Laureato in Lettere all'Università di Bologna lavora da anni come autore per la radio e l'audiovisivo. Insegna Scrittura creativa all'Istituto europeo di design e tiene seminari e incontri nelle biblioteche, le scuole e i centri culturali in Italia e all'estero. Autore di una ventina di romanzi e novelle per ragazzi, alcuni titoli recenti sono: Bestiacce!, UniverZoo, la serie delle MilleUnaMappa, tutti pubblicati da Giralangolo e La guerra del miele, uscito per le Edizioni Paoline. www.faustotorpedine.blogspot.com
IL RACCONTO
A un pilota polacco, e a Zamà che l’ha raccontata.
I. Primavera 1946.
          Ci vuole niente per fare  felice una bambina. 
          Come quella che esce ora  dalla chiesa con il vestito bianco della prima comunione.  Com’è felice stamattina. Eppure la madre  veste di nero anche se è giovane; eppure la bambina, di notte, ancora trema e  suda sul petto di quella madre, che ripete: “Non ci sarà più la guerra,  piccina, non ci sarà più la guerra, te lo giuro.”
          Ci vuole poco a fare  felice una bambina, e un vestito di seta bianca è tanto, quando la fila per il  pane è più fitta dei grani di un rosario. Ma cambierà, un giorno cambierà.
          Dio com’è bella la vita  quando non c’è la guerra. Sembra ovvio, ma non ci si stancherebbe mai a  ripeterlo in silenzio, in segreto. 
          I morti si dimenticano,  è crudele ma è così. Succede che una mattina, mentre cuci un vestito o lavi la  biancheria, comici a canticchiare una canzone allegra, di quando avevi  vent’anni. È ancora più facile dimenticare i morti quando non c’è più la  guerra. Quella mamma non sa perché, è ancora giovane ma con gli anni ha  imparato che non si può spiegare tutto. 
          Un rettangolo di seta  bianca, seta di guerra, riposto in fondo a un cassetto, un po’ ingiallito e  spiegazzato. Quella mamma vestita di nero l’ha ripreso solo qualche giorno prima  della comunione. 
          L’ha aperto e  accarezzato. Era leggero, ispido e freddo, come i ricordi. 
          Poi ha preso le forbici,  un ago e del filo. 
II. Inverno 1944.
          Un rettangolo di seta  bianca. 
          L’aveva portato una  mattina un uomo alto e biondo. Allora c’era la guerra. 
          Era ancora buio fuori. I  colpi contro il legno della porta avevano fatto tremare l’aria gelida della  casa, senza dare però nessun calore. La bambina dormiva. La donna si vestì in  due gesti veloci mentre il marito scompariva nel buio. Allora non era vestita  di nero. 
          Andò ad aprire. Un uomo  stava di fronte alla porta, troppo alto e troppo biondo, in faccia aveva i  segni della fame e del poco sonno, una giubba da pilota strappata, macchiata di  fango. Non era un tedesco, poteva sembrarlo ma non lo era. 
          Anche il marito era  sceso, con gli occhi gonfi, la camicia sbottonata e la roncola infilata nella  cinta dei pantaloni, dietro la schiena. I due uomini si guardarono: occhi  chiari contro occhi scuri, stesso sguardo di paura feroce.
          L’uomo alto infilò la  mano nella giubba, il marito fece scivolare la sua dietro la schiena. Dalla  giubba uscì uno scampolo di stoffa bianca, il sole nuovo la ornava di mille  sfumature. 
          La mano del marito  lasciò il manico della roncola, si aprì e indicò il tavolo e la sedia. 
          - Entra – disse.
          Pane, vino, un pezzo di  formaggio giallo come sapone. Quello c’era e quello divisero. 
III. Inverno 1944.
          Quando toccò il suolo il  paracadutista pensava alla sua terra liscia e dura, invece si ritrovò con la  faccia in una terra scura e grassa. 
          Tagliò le cordicelle del  paracadute, a grandi bracciate lo raccolse e scomparve tra i cespugli. 
          Non sapeva dove fosse.  Era buio, sotto la luna la campagna era un brusio discreto, rotto da rumori  secchi, improvvisi. Di una cosa era sicuro: era dietro le linee nemiche, era  solo. 
          La paura gli infiammò la  giubba come un fuoco, lui era un soldato d’aria, e gli mancava il frastuono dei  motori. Quel silenzio lo atterriva. Gettò a terra la cuffia di cuoio, la pistola,  le mappe, strappo dalla giubba i gradi e le mostrine. “Troppo alto, troppo  biondo” pensò, ma ora non aveva importanza. 
          Con il coltello tagliò  un rettangolo di tela del paracadute, non troppo grosso, che lo tenesse caldo  senza ingobrarlo e lo infilò nella giubba. Forse sarebbe riuscito a barattarlo  con un piatto di minestra e della paglia per dormire. Buttò il resto in un  dirupo e si allontanò nel buio. 
IV. Inverno 1944.
          Anche la bambina si alzò  presto, quella mattina quando c’era la guerra. Era piccola allora. Entrò in  cucina col passo veloce dei bambini infreddoliti, con gli occhi pieni di sonno.  Andò a sedersi sulle ginocchia dell’uomo alto e biondo, si accucciò sul suo  petto e si riaddormentò. L’aveva scambiato per suo padre. 
          I genitori rimasero  gelati, ma non si mossero. Invece gli occhi chiari del soldato diventarono  ancora più liquidi e brillanti. Accarezzava i capelli della bambina, sorrideva  e annuiva, diceva qualche parola smozzicata toccandosi il petto, ansioso di  essere compreso. 
          Anche lui ha una  bambina, capiscono, e tira fuori una fotografia. Una bambina bionda, seria, dai  grandi occhi chiari; perché le fotografie non si possono buttare via, anche  quando valgono la vita.
          La giornata passò dietro  le finestre accostate, e un’altra notte venne a inghiottirli. 
          Quella sarebbe stata  l’ultima notte passata insieme. L’uomo e la donna non lo sapevano ma non  riuscirono a dormire. Neanche l’uomo alto e biondo lo sapeva, nella penombra  della cucina fumava una sigaretta. Aspirava avido, come se il fumo potesse  scaldarlo, riempire ogni vuoto. Non è facile dire a cosa pensasse.
          - Dobbiamo mandarlo via  - disse la donna. 
          Il marito ci mise un po’  prima di rispondere: - Io mi nascondo e lui si nasconde, non fa differenza.  Domani andremo via. 
V. Inverno 1944.
          Non era gente più  cattiva di altra, anche se li puoi immaginare scuri in volto e in divisa, in  una mattina che era ancora notte, un giorno freddo e torvo, senza niente di  particolare ma che alcuni non avranno più la forza di raccontare.
          Scesero dai camion, con  sbaffi di calce sui cappotti scuri, di quando quei camion andavano per le  strade, andavano per costruire; scesero con la baionetta alla cintura, che batteva  sul calcio del fucile. Nessuno sa se cercassero un uomo biondo o un uomo scuro.  Non è importante, ora non più. 
          Erano saliti su un  camion che era ancora buio, erano scesi vicino a quel casolare, avevano corso,  gridato e li avevano presi. Come se fosse una cosa importante, come se si  decidesse dei piccoli e dei grandi futuri. Tutti sapevano come sarebbe andata a  finire, nessuno però poteva dirlo, se non sottovoce. Il patto era questo.
          Presero due uomini  invece di uno. Un pilota alleato, forse polacco, e un renitente alla leva. Due  uomini e una sola parola: nemici. 
          In quell’alba che  nessuno vuole più raccontare il crepitio dei fucili automatici azzittì la  campagna. Una donna portò la mano alla bocca per non gridare, una bambina  invece gridò.
          Come sono ridicoli i  cadaveri dei morti ammazzati per strada, un capriccio tra la forza ottusa di un  proiettile, la molle resistenza di nervi, muscoli e ossa, la natura del  terreno. 
          Avrebbero dovuto essere  felici, fieri o almeno soddisfatti quegli uomini nelle divise ruvide e scure.  Eppure adesso erano ancora più cupi e stanchi; ai lati del sentiero tamponavano  la fronte con i fazzoletti e rimettevano in spalla i fucili.
          I corpi gettati sul  cassone alzarono nuvolette bianche di calce, poi il nuvolone nero dello  scappamento e quello grigio della polvere della strada.
          La polvere si chetò e i  cinguettii del mattino ripresero, dolci, indifferenti e crudeli.
        
VI. Primavera 1946.
  “Com’è cresciuta adesso,  com’è bella”, pensa la madre di fronte alla chiesa. E come riluce quel vestito  di seta candida, un vestito da principessa, in mezzo ai vestitini buffi, messi  insieme rivoltando federe, chissà quante volte rivoltate.
          Sorride come sorridono  tutti in quella domenica, con le campane che rimbombano nel petto, con quei  vestiti sempre più corti, sempre meno scuri, che tra un po’ sarà estate, che  ieri al mercato c’erano le albicocche. Care come gemme, eppure non si vedevano  da anni.
  “La paura le passerà,  tutto passa” pensa quella mamma.
          Ci vuole poco a fare  felice una bambina, anche rinunciando a un ricordo. Oppure non è rinunciare. I  ricordi, quelli importanti, soffrono a stare nei cassetti, ingialliscono, si seccano,  devono germogliare, fiorire e seminare ancora.
          Perché quella mamma sta  immaginando un giorno tra tanti anni. Venti o trenta anni, chi lo sa, quando  una donna bionda busserà alla porta della sua bambina diventata anche lei  donna. Allora non avrà più paura della guerra. Avranno più o meno la stessa  età, si guarderanno senza timori: occhi chiari e occhi scuri. Sua figlia capirà  subito chi è. 
          La inviterà ad entrare,  la farà sedere e le offrirà un caffè, un’aranciata, quello che c’è. In una  lingua strana o forse in americano la donna le domanderà di un uomo biondo e  alto, di un pilota alleato, forse polacco. Oppure si capiranno a gesti, o forse  parleranno tutt’e due americano, non è importante. 
          La mamma sa che al primo  silenzio la figlia si alzerà e da un cassetto in fondo a un armadio prenderà un  vestitino da bambina, bianco, leggero e ispido, di seta di guerra. Lo mostrerà  a quella donna venuta da lontano e un po’ a gesti un po’ a parole le racconterà  di una mattina di tanto tempo prima, di un uomo biondo e uno scuro, di quando  c’era la guerra.
