Quarta edizione 2007 • vincitore premio Cassa Rurale prima categoria

Bello come un'ostrica

William Sperandio

William Sperandio

Nasce a Montebelluna (TV) il 18 giugno 1991 da madre francese e padre italiano. Vive a Canal San Bovo (TN). Frequenta il terzo anno di liceo classico a Feltre (BL). Studia chitarra classica da privatista sostenendo gli esami di conservatorio. Attualmente sta preparando il Compimento medio dell’ottavo anno. In questo campo ha ottenuto riconoscimenti nazionali (Spoleto, Umbria 2004, primo classificato) e internazionali (Gorizia, Friuli, 2006, terzo classificato). Ha soggiornato per brevi periodi in Francia e Germania frequentando scuole francesi e tedesche. È cittadino italo-francese bilingue. Parla e scrive anche in lingua tedesca e inglese. Pratica attività sportive, preferendo il nuoto e lo sci.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Uno stile secco, a tratti spiazzante, così come la trama di questa storia, dove il protagonista – al termine di una esistenza segnata drammaticamente da un figlio “non lasciato nascere” – sceglie di lasciarsi andare in fondo al mare, tra le ostriche. Una scrittura ricca di particolari per un racconto che non lascia indifferenti.

IL RACCONTO

Bello come un'ostrica
All'inizio ci fu la fine e alla fine l’inizio, ancora adesso ne sono sconvolto, in dicembre, metà dicembre, già quasi alla fine.
Quanto è breve la vita!
Arriva la sera, i becchi a gas a forma di foglie d’acanto brillano prima della notte e si moltiplicano sopra la mia testa.
Cammino in fretta. Il sole esausto riesce solo a riscaldare la superficie della mia pelle sotto il mio cappotto. Sono gelato nella mia vecchia carcassa. La mia borsa è pesante, mi fa male la gamba.
Qualche scalino di pietra superato, lascio il lungosenna per attraversare il vecchio ponte del Châtelet. Nel teatro si suona un'opera di Musorgskij con Chaliapin in vista. Non mi piace Chaliapin.
Il boulevard Sebastopol è tranquillo, ho fame, ho freddo e cerco un bar per rinfrancarmi. Verso lo slargo delle Halles, ci sono le ragazze in mezzo al cibo offerte ai pescivendoli, scaricatori e mercanti.
Un uomo, coltello in mano, chiama il passante davanti alle sue ceste straboccanti di ostriche grigie. Il Café Jean Goujon è luminoso. All'interno, tolgo il cappotto, mi sistemano vicino al riscaldamento e mi rilasso.
Mi siedo, mani tese sopra la stufa e traggo un sospiro di felicità, finalmente.
Gli uomini e le ostriche si assomigliano, ma preferisco le ostriche.
Un' unica domanda: ordinarne una o due dozzine.
Vada per due.
Gli uomini all'esterno sono identici: una testa, con due occhi, un naso, orecchie e bocca. Un corpo dotato di uguali attributi. Volendo si possono trovare minime differenze: la statura, il volume, il colore.
Ma dentro è uguale.
Esattamente uguale.
A volte si può trovarci una perla, un pezzettino di madre-perla incistato in una schifezza. Invano ho tentato di scoprirne.

Vicino al banco, una donna tonda mi sorride. Nel bel mezzo del suo petto, conchiglie semiaperte, la carne tenera non chiede altro che di uscire.
Deliziosa e salata.
Sul vassoio, riposano docili e mi aspettano, ancora vive. Piccole lingue fredde che si attorcigliano contro la mia lingua.
A Montparnasse sui marciapiedi, gli amici si staranno stufando. Il treno per Audierne, via Rennes e Quimper, è partito. Ce ne sono altri, ce ne saranno, ho tutto il tempo.
Una notte intera davanti a me.
Ho chiesto di aspettare fino all'alba. Sono fedeli tutti i miei amici, seduti a Montparnasse sulle panchine lungo il marciapiede, accompagnati dai loro strumenti accuratamente impacchettati.
In fondo alla stanza, il fonografo, col padiglione teso come un'enorme vilucchio, suona un'aria che non conosco e che mi lascia indifferente. Mi concentro sulla mia degustazione e spingo la carne tra la lingua e il palato.
Si schiaccia, il succo si sparge.
Incido sotto il dente, frantumata si scioglie.
Mando giù, sento ancora lungo l'esofago la sottile agonia della mia sorella bivalve, venuta in me per riprodurre, riprodursi in fondo alla mia pancia androgina. Dolorosa, voluttuosa, si allontana e torna come nell’amore. Come nell’amore, divento te, diventi me, ti trasformi. Scomposta nello stomaco, ben nascosta nel buio, diventi poco a poco una parte di me stesso nelle mie cellule.
La mia carne, i miei muscoli, i miei occhi e il mio pensiero.
Un bicchiere di vino bianco, secco.
Le mie suole, la mia cintura e i miei braccialetti di piombo sono messi a posto. Maniaco, dò un'occhiata in borsa, è tutto a posto. Pago il conto. Mancia regale. Compro qualche sorriso, un’apparenza, una manica che m'infilano nel braccio, un’inchino, una porta che si apre e un rispettoso a presto Signore.
Nella strada mi diverto, una risata, una vera risata... Eppure la mia gamba tira sempre di più e il dolore sale all'anca. Non sono più io, è l'ostrica che soffre. Donna, piccola donna, partorirai nel dolore e nel freddo. Fa freddo.
Cerco una vettura. Tutte occupate. Non importa, il mio vecchio corpo si torce dal dolore e dalle risate. Frusta, vetturino!
Gesticolo, una carrozza si ferma finalmente quando non aspetto più.
– Montparnasse, per favore, rue du Départ.
Lo scalino è alto, e con difficoltà mi sistemo, per niente al mondo chiederei un aiuto. Il selciato, lo sanno tutti, è insopportabile e tutto pestato. Penso a mio moglie Marcelline, ai nostri anni di urli, di contese e di risate. Penso a quel figlio che non abbiamo lasciato nascere, buttato come un grumo nell'acquaio. Poi ripenso a quella stessa donna livida e morta che mi abbandona come una ereditiera in un letto bianco.
Sono tutti là: Fernand, Nicolas, Joseph e gli altri. Tutti là, come sempre.
Mi hanno accolto come un Principe e meglio dell’Imperatore Guglielmo nel suo paese, con della musica: dato che il figlio del Re mi ama con i miei zoccoli.
Nel treno, ho dormito da Parigi fino a Rennes, poi da Rennes a Quimper. Prima di Audierne, abbiamo cantato Bruant. L'impiegato della ferrovia è venuto a trovarci perché gli altri viaggiatori si erano lamentati. Gambe leggere, è arrivata la notte sul porto.
Per me, hanno suonato un'aria di fanfara.
Sorridente, leggero come un coniglio malgrado i miei braccialetti, cintura e suole, sono saltato sulla barca cantando ancora più forte della musica.
Un'ultima piccola paura, mi allontano dal bordo.
Non mi piace l'alto mare.

Più pesante dell'aria, dell'acqua o degli altri elementi, non sono già più sulla nave, affondo e mi sprofondo. Non sono più con voi, di un'altra specie, senza linguaggio. Soltanto una lingua, piccola e molle rinchiusa nella sua conchiglia stagna. Una lingua fredda, umida e che sprofonda, viva. Una lingua primitiva, piacevolmente salata. Ingoio l'acqua, resisto un istante e poi la respiro. Sprizza per depositarsi in fondo agli alveoli. Sereno, tranquillo.
Quieto, come sempre dopo l'orgasmo, portato dalla corrente, filo via e affondo per stendermi e presto scompormi contro le mie sorelle lamellibranchie che aspettano, conchiglie semiaperte, l'ora di filtrare la mia sostanza.
Che bello che sono!
Vedi, Joseph, la morte non è poi così triste.