Quarta edizione 2007 • vincitore prima categoria

Silenzi

Giangiacomo Dandrea

Giangiacomo Dandrea

Abito a Borgo Valsugana (Tn) e frequento il quinto anno del Liceo Scientifico “A. Degasperi” del mio paese; sogno di diventare pilota, perchè il volo è la mia grande passione, come del resto viaggiare, scoprire luoghi e persone che difficilmente si trovano seguendo le gite organizzate. Sono uno scout da dieci anni, grazie a loro ho imparato ad essere ottimista e a darmi da fare per migliorare, nel mio piccolo, questo pianeta. Anche se l'esperienza mi ha fatto capire che non è così facile da trovare, credo lo stesso nell'Amore vero. PS: ho anche molti difetti, ma quattro righe non basterebbero!

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

La celebre dichiarazione di Gustave Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”, sta a significare una cosa tra le tante: che la letteratura è anzitutto questione di punti di vista. In questo racconto, l’originalità dell’angolo di visuale (quello di una vecchia panchina da giardino) convince da subito. Rende verosimili sentimenti altrimenti assurdi, quali l’invidia che un semplice, arido oggetto materiale può nutrire verso le riccamente varie vite degli umani. Eppure, sono proprio le “lievi, antiche voci” degli oggetti a darci sostegno. Senza che noi lo sappiamo, un fitto e salvifico dialogo si svolge tra noi e le cose. Basta sapere ascoltare. Lo sa bene l’immaginazione, che quando come in questo caso si congiunge alla scrittura, è capace di arrivare dappertutto.

IL RACCONTO

«È sorto il sole anche oggi. Lo sento, alle mie spalle, percepisco i suoi raggi caldi, che mi screpolano, mi deperiscono, soprattutto a mezzogiorno, quando diventano insopportabili e mi fanno diventare bollente. Ricordo tanto tempo fa, quando ero ancora nuova di zecca, lucida e ben verniciata…gli addetti del Comune mi avevano inchiodata qui, tra questi due vecchi alberi, sulla collinetta del paese. Quello fu il mio primo giorno da panchina comunale. Fu anche la prima volta che conobbi il sole, luminoso, accecante, che a sera si nascondeva dietro ai monti, fra meravigliosi bagliori rossastri. Ma soprattutto, quel giorno fu la prima volta in cui qualcuno si sedette sopra di me. Erano in due, a piedi, lei spingeva una bicicletta. Peccato non riuscissi a vederne i visi, ma mi sembravano giovani. Si capiscono molte cose di una persona da come si siede. Lui sembrava disinvolto, con la schiena ben appoggiata. Poi aveva messo un braccio intorno alle spalle della ragazza, ma io sentivo che, con una gamba, mascherava il tremore che lo pervadeva. Lei era come più timida o almeno così voleva far sembrare, con le mani in grembo e le lunghe gambe elegantemente accavallate, nascoste da una lunga, leggera gonna. Bisbigliavano. Ad un certo punto, silenzio. Un silenzio strano, diverso da quello della notte o del deposito dove ero rimasta per tanto tempo. Fu abbastanza lungo, poi sentii qualche altra parola, un sospiro leggero, quasi trattenuto. Qualche attimo dopo lui si alzò, tenendo lei per mano, salirono entrambi sulla bici e si allontanarono, con la fresca risata della ragazza che copriva il cigolio dei pedali. Non capivo bene cos’era successo... ma soprattutto, cos’era stato quel silenzio? Tuttavia non ebbi molto tempo per riflettere perché un cane vagabondo, vedendomi lì, tutta nuova, decise di lasciarmi un simpatico ricordo del suo passaggio... Da allora tuttavia, osservo ogni persona che si ferma e cerco di rispondere alla mia domanda. Anziani pensierosi, giovani solitari, madri che fanno giocare i propri bambini: tutti avevano i loro momenti di silenzio, ma non quello che cercavo io. Le uniche volte in cui lo trovavo erano quando un uomo e una donna, si sedevano osservando il panorama, soprattutto al tramonto. Col passare degli anni cambiavano alcune cose, arrivavano a piedi, oppure con un aggeggio rumoroso che chiamavano “Vespa”, qualcuno mi spegneva la sigaretta addosso mentre parlava, oppure appiccicava una gomma informe e umidiccia, altri mi incidevano degli strani segni sulle assi, tutti soddisfatti. Proprio ieri sono arrivati due giovani, lui con dei pantaloni ridicoli, di qualche taglia più grande, lei con una maglietta così corta che le lasciava il ventre abbronzato scoperto. Ridevano di gusto, felici. Alla ragazza è scappato di mano un giocattolo strano, che emetteva dei suoni fastidiosi, lo chiamava “cellulare”, sembrava ne andasse matta… Poi si è seduta sulle ginocchia di lui (non so perché, c’era così tanto spazio libero...), che ne approfittava per farle il solletico. Un attimo dopo, eccolo, il silenzio. L’unica cosa che accomuna tutte le coppie che si sono fermate qui, in questi molti anni, che unisce le persone, che le fa cambiare, le fa star bene. Quando ricominciano a parlare sono diversi, completi. È come se fossero riusciti a superare qualcosa... Io non posso guardare verso l’alto, osservare cosa succede in quel momento, posso solo dire che quel silenzio è unico, tipico degli esseri umani. Deve essere una cosa bellissima… forse non lo saprò mai, d’altronde sono solo una vecchia panchina.»

“Che sciocchezza, pure le panchine parlanti...” bofonchiò sottovoce, riponendo il foglio da una parte, dove era destinato ad un lento cammino verso l’oblio, coperto da tante altre pagine anonime e da scartoffie varie. Sulla sua scrivania, come su quelle di tanti altri editori, avveniva una vera e propria decimazione, un piccolo Giudizio Universale... questi sono i Prescelti, gli altri, via, fateli sparire. Nessuno ci faceva caso, quello era il suo lavoro e poi il parere che dava era insindacabile, una volta che aveva deciso una cosa, così era. Aveva vissuto un’intera vita in questo modo, mai un ripensamento, mai una marcia indietro: a scuola, quando non la spaventavano ore di studio continuato, alle gare giovanili di atletica, in cui ammutoliva il dolore del suo ginocchio soltanto con la forza d’animo, perché aveva deciso di terminare lo stesso la corsa, all’università, quando continuò gli studi mantenendosi con un lavoro part-time e infine al giornale dove aveva scritto per tanti anni, vincendo il maschilismo che albergava da sempre in quell’ambiente. Le sue scelte l’avevano portata al vertice, le permettevano di camminare a testa alta, di essere rispettata. Era l’editrice di una delle più famose collane di libri per ragazzi, conosciuta ovunque. Ironia della sorte, non aveva figli, mai stata madre, né tanto meno sposata; sarebbe stato di certo un ostacolo alla carriera, si sarebbe dovuta ritirare per accudire dei poppanti frignoni, buttando al vento una vita di successi... No, la sua scelta l’aveva fatta ed era ovviamente quella giusta. Ora era lì che scrutava con i suoi begli occhi verdi altri manoscritti, che finivano puntualmente nell’angolo dei “reietti”. “Si credono tutti dei premi Nobel, sta a me riportarli con i piedi per terra” amava dire nelle interviste. Dopo qualche ora però la stanchezza si faceva sentire, ogni giorno di più... aveva bisogno di aria, di sole, così decise di prendersi una pausa e farsi una passeggiata verso la sua vecchia università, circondata da un grande parco, a due isolati di distanza. Una volta arrivata cercò un posto dove sedersi e rilassarsi; fu a quel punto che vide una panchina, di quelle vecchio stile, fare capolino da dietro un albero nodoso. Accertatasi che era in buono stato, si appoggiò con grazia, guardandosi intorno. Lei, una donna in tailleur nero, seduta lì, da sola, contrastava parecchio con le altre persone intorno: mamme con il passeggino, gruppi di vecchietti, coppie che si tenevano per mano... se ne rendeva conto. Un senso di nausea la pervadeva, come se qualcosa nel suo essere stesse cambiando. Stringendo la mano attorno a uno dei braccioli della panchina, le balenò nella mente un ricordo che credeva di aver rimosso, come una visione: aveva più di vent’anni in meno, ma aveva già nello sguardo quella determinazione che piaceva a molti. Era seduta anche allora su una panchina dello stesso parco, ma non era sola, con lei c’era Andrea, l’unico dei ragazzi che conosceva con qualcosa di speciale. Era una giornata primaverile, tutto era perfetto. Lui le si era avvicinato per baciarla, lei stava ancora sorridendo per qualcosa che si erano detti prima, scherzando. Le loro labbra erano così vicine, bastava che lei facesse l’ultimo passo. Ma invece scostò il capo. Non l’aveva previsto, non l’aveva scelto lei, l’azione di Andrea non rientrava nei suoi piani, perciò era da evitare. Fu l’occasione in cui imboccò definitivamente la strada che qualche decennio dopo l’avrebbe portata a diventare quella gelida persona che era. La nausea era insopportabile, una parte di lei, da tempo sopita, voleva uscire... un pianto, a lungo trattenuto, finalmente trasformò quei lineamenti impassibili. Aveva sacrificato il suo cuore per raggiungere degli obiettivi troppo materiali, aveva combattuto sempre per una vita che in fondo non voleva. Capì di non essere infallibile, comprese che cambiare idea, avere dei ripensamenti non è mancanza di coerenza, ma può essere l’occasione per una rinascita. Le venne in mente quel breve racconto della panchina parlante: era sola perchè aveva rinunciato a quel dolce silenzio d’amore per lasciare il posto ad un silenzio vuoto, quello del suo cuore. Arrivata sul confine, era fuggita di fronte al mistero di quel contatto, era tornata indietro, preferendo la razionale sicurezza del suo mondo. Chissà se la panchina dov’era seduta adesso la poteva capire... un’ora prima avrebbe riso alla sola idea, ma ora che tutte le sue certezze erano crollate, poteva benissimo essere così. “Ho sbagliato” ammise con un filo di voce “Grazie per avermi aperto gli occhi, ho molte cose da cambiare nella mia vita e devo darmi da fare. Ora vado, ho una storia da pubblicare, persa tra molte scartoffie.” Sentendosi meglio, più leggera, noncurante del trucco ormai sfatto, si allontanò veloce, divertita perchè si era messa a parlare da sola come uno di quei vagabondi squinternati che aveva sempre evitato.

“Non c’è di che, buona fortuna” sussurrò lieve un’antica voce, ma ormai era troppo lontana perché la potesse sentire.