La decima edizione 2019 • segnalato sezione inediti

Dispersioni

Anna Marinella Siccardi

Anna Marinella Siccardi

Anna Siccardi vive e lavora a Milano. Laureata in Estetica e diplomata in drammaturgia alla scuola Civica Paolo Grassi, ha scritto testi teatrali e cortometraggi. Un suo racconto, vincitore al Premio LuccAutori del 2012, è stato pubblicato nell'antologia "Racconti nella rete" per nottetempo. 
Per anni ha collaborato come pubblicista per il gruppo Condé Nast. Il suo primo romanzo, "La parola magica", uscirà all'inizio del 2020 per NNEditore.

IL RACCONTO

Sua madre gli avrebbe lavato via il sangue, perché così fanno le madri.

Delicatamente, all’inizio, e poi con più forza, insistendo sulla ferita fino a fargli male. Non troppo, ma abbastanza da potergli dire: vedi? Devi stare più attento.

Lei aveva fatto così anche con gli scatoloni del trasloco, alternando a sorpresa cautela e ferocia: fa’ piano con i piatti, gli diceva, avvolgili bene, ma poi si era messa a spaccare tutte le bottiglie, una per una, un colpo netto sul bordo del lavabo, mentre l’odore dolciastro di alcol riempiva le stanze come un incenso.

Tutta la loro vita era finita in venti scatole chiuse con il nastro bianco e rosso, con la scritta FRAGILE che all’improvviso era dappertutto. A Pietro importavano solo i libri di scuola. Li aveva impilati in ordine di grandezza, lisciando uno a uno gli angoli che si erano piegati, e chiusi in uno  scatolone su cui aveva scritto PIETRO. Aveva usato lo scotch normale, perché non c’era nulla di fragile nei libri. Ne avrai altri nella scuola nuova, aveva detto sua madre. Ma lui li voleva portare con sé lo stesso, come avrebbe voluto portare via il banco, i rami dell’olmo che vedeva dalla finestra, la ragazzina in terza fila con le lentiggini che quando la guardavi abbassava gli occhi e anche la maestra, che era gentile e sorrideva molto più di sua madre.

Voleva saperne di più di Lada, la lupa di cui avevano parlato in classe. I forestali l’avevano avvistata e la seguivano con il GPS sulle mappe satellitari. Un puntino rosso che solcava foreste. Lada era entrata in dispersione: si dice così dei lupi che abbandonano il branco di nascita per cercarne uno nuovo o per vivere in solitudine. Succede raramente, diceva la maestra, perché in dispersione aumenta molto il rischio di morte, soprattutto per le femmine. I cuccioli, se ne esistono, restano al branco.

Quindi il desiderio di andare via è più forte dell’amore per i cuccioli, aveva chiesto Pietro.

Il desiderio non c’entra, aveva risposto la maestra. Si chiama istinto.

L’ultima sera che avevano dormito nella loro vecchia casa sua madre non l’aveva voluto nel letto grande, ma lui se la sentiva vicina lo stesso, dalla sua camera in fondo al corridoio, l’udito puntato alla porta di lei, uno spacco di ombra nella penombra. L’aveva sentita singhiozzare e aveva pensato di prendere il nastro bianco e rosso e avvolgere tutto, la casa, il palazzo, la città, il grande letto bagnato di lacrime e anche la maestra e la lupa coi suoi piccoli. Invece si era alzato, era entrato nella sua stanza senza bussare e si era sdraiato accanto a lei.

Dobbiamo proprio andare via, le aveva chiesto.

Non desidero altro, aveva detto lei, ma lui sapeva che non era vero.

L’aveva abbracciata e aveva sentito il suo respiro calmarsi, appoggiarsi alla notte. In quel corpo fragile, un tempo, era stata la sua casa.

Lasciata la città si erano spostati ai margini di un piccolo paese, verso le montagne, in un avvallamento oscuro tra alberi tanto alti da nascondere il tetto.

Era luglio, e all’inizio della scuola mancava un’estate in cui Pietro non sapeva cosa mettere. Nei pomeriggi assolati perlustrava la zona con una bici che aveva trovato abbandonata nella rimessa; era un po’ storta, ma a lui sembrava bellissima perché era la sua unica amica. Rincasare la sera era un atto di fede per via di quell’ultimo tratto di strada, uno sterrato irregolare e ripidissimo. Pietro fermava la bici in cima alla discesa e inspirava forte. Dava un ultimo sguardo intorno e poi chiudeva gli occhi e si lasciava andare.

Anche questa volta aveva preso troppa velocità, e così una buca, il volo, l’ebrezza di un istante e poi lo schianto, la bici in scivolata a tre metri sotto di lui: si era scarnificato un bel pezzo di coscia, dal ginocchio in su, ma quello che l’aveva stordito era stata la violenza dell’impatto al suolo. Allora era questa, la forza di gravità. Quando l’aveva studiata sui libri gli era sembrata una forza gentile, si era immaginato la Terra e gli altri pianeti danzare un valzer cosmico, lentissimo, come su una giostra al rallentatore. Eppure non c’era stato nulla di gentile nella sua caduta: un tonfo mozzafiato, la cecità di un momento, i sassi dello sterrato conficcati nella carne. La Terra l’aveva reclamato a sé come una sua scaglia ribelle: dove credi di andare?

Pietro aveva percorso gli ultimi metri della discesa a piedi, portando la bici con il manubrio sbilenco, e ad ogni passo il suo corpo sembrava inchinarsi a chiedere perdono alla Terra, per averne ignorato la forza.

Entrò in casa sperando di barattare le sue ferite con una carezza, ma sua madre non c’era.

La casa nuova sembrava quasi grande, ma era il silenzio.

Fece scorrere l’acqua, si sarebbe lavato via il sangue da solo.
Sei grande ormai, gli diceva sempre lei, eppure la sera si sedeva sul bordo della vasca e stava lì, a sfregargli la schiena. Le poche parole tra loro salivano doppiate dallo specchio d’acqua e Pietro sperava che l’eco delle voci coprisse la sua nudità che cambiava. Sua madre faceva finta di non guardarlo ma poi lo spiava, e sorrideva. Rideva di lui. O della sua vergogna? Era questo che faceva con gli uomini?

L’acqua era bollente e la ferita bruciava forte, ma Pietro sapeva come abituarsi al dolore: bastava non reagire. Sentì la gravità allentarsi e svanire, come un volume che si abbassa. Finalmente poteva fluttuare.

Lada era entrata in dispersione da un branco sugli Appennini e sembrava puntare all’Austria, aveva già percorso più di trecento chilometri. Pietro immaginava il suo segnale satellitare pulsare rosso sulle mappe come il battito di un cuore. I suoi cuccioli dovevano pensare che fosse morta o forse se l’erano semplicemente dimenticata, come lui a volte si dimenticava di suo padre, che quando c’era era dappertutto ma poi di colpo non c’era più stato, come le scatole del trasloco. E’ andato nel regno dei cieli, aveva detto il prete, lo stesso posto dove erano andati i nonni, il vicino e forse anche la gatta rossa che per anni era venuta sulla terrazza al mare ma poi non si era più vista.

A Pietro sembrava che in cielo ci fossero solo i pianeti, anche se il prete diceva di no.

Fermò lo scorrere dell’acqua, ormai era salita fino a lambire il bordo, e pensò che avrebbe anche potuto annegarci dentro. Che cos’era, esattamente, che teneva vive le persone?

Chiuse gli occhi e inspirò forte, di nuovo, come in cima a un’altra discesa, sentendosi all’improvviso sorretto da una forza sotterranea, una gravità di anime, né buona né cattiva, ma cieca ed eterna, che teneva insieme il bosco, la casa, l’acqua, il suo corpo e ogni cosa del mondo. Si sentì vegliato da tutti i suoi morti, dai morti di ogni tempo, eppure vivo come non si era mai sentito. I suoi dieci anni gli pulsavano nelle vene, erano resistenza al magnete profondo della Terra. Si sciacquò la faccia e uscì dalla vasca vacillando.

La ferita era bianca, vuota di sangue, sua madre non si sarebbe accorta di niente.

Sentì un rumore da fuori, un ramo spezzarsi, uno scarto.

Mamma, sei tu?

Dalla finestra vide qualcosa brillare nel buio. Erano gli occhi di un animale, acquattato a pochi metri dalla casa. La lupa lo guardava immobile, ventre a terra, le orecchie puntate all'universo. Si guardarono ed erano uguali: nudi, soli e inchiodati al suolo. I loro cuori battevano insieme, e così la Terra, cieca, sentiva un figlio solo.