Ottava edizione 2015 • segnalato sezione inediti

Ora che il tempo mi è alle spalle

Elisabetta Curzel

Elisabetta Curzel

Laureata in architettura, si è poi specializzata in management dei beni culturali a Venezia e a Salamanca (Spagna), e ha studiato comunicazione presso la New York University e la Columbia University (Stati Uniti). Giornalista professionista devota alla divulgazione scientifica e culturale, è membro dell'Unione giornalisti scientifici italiani, e si interessa da anni all'accessibilità, anche attraverso i new media, della conoscenza di settore.
A ottobre 2015 ha vinto, unica italiana, una delle 12 borse di studio mondiali dedicate ai giornalisti per seguire il forum mondiale per la scienza di Budapest, l'appuntamento di riferimento del settore organizzato dall'Unesco ogni due anni.

IL RACCONTO

Ora che il tempo mi è alle spalle, e che la memoria di me signora è stata sostituita dall’incredulità, e infine dall’isolamento, posso dire con serenità che le cose alla fin fine sono andate bene, perché ho vissuto esattamente nel modo che desideravo. Perché io l’ho amato, mio marito; e se la gente non l’ha capito, e ha preferito parlare alle mie spalle e togliermi il saluto, fino a rendermi un fantasma, è solo perché non sa cosa significa l’amore.
Quando arrivai qui, così più giovane di lui, ed entusiasta, lui era il mio padrone. Padrone della mia felicità, del bel tempo, di ciò che è opportuno e di ciò che va taciuto. Mi schernivano, alcuni; perché la donna deve essere indipendente, e autonoma; e vedere che sorridevo a ogni sua arguzia, e guardarci camminare a braccetto, e il mio lasciarlo sempre parlare per primo – tutto questo pareva un affronto sboccato al mito antico e inservibile della parità di genere.
Il giorno che aprimmo la nostra casa, risistemata, venne tutto il paese; e bocche e occhi esclamarono di stupore, perché l’antico era rinato a nuova vita, e ciò che era morto ritornava primavera. Passarono dal glicine, accarezzandone i grappoli fioriti, e odorarono le rose rampicanti sul muretto; sgranarono tra dita incredule il tessuto delle tende sottili, e videro il sole, e le posate d’argento sui tavolini, lasciati timidi e distanti per lasciar parlare. E il sole venne per anni, e con lui la gente, e furono anni di grazie, si sta bene da voi; ma tutto era destinato a cambiare, e io lo compresi un giorno preciso, di novembre, svegliandomi più presto del solito, che la Ninetta quel giorno non poteva venire e attendevamo ospiti, quando lo vidi di sotto in sala che preparava i tavoli per la prima colazione.
Elegante lo era sempre, come se l’età passasse solo per gli altri, e attento su tutto. Controllava la posizione delle posate e sorrideva tra sé; aveva messo il piatto grande, e sopra il piattino, il tovagliolo piegato a fior di loto e teneva in mano le posate, tutte e quattro. Lo guardavo dalla scala, seduta silenziosa sull’ultimo gradino, e sorridevo anch’io; e non so cosa successe alla mia attenzione, e al tempo attorno a noi, ma mi sembrò di vederlo, e di sentirlo dentro, quando si concentrò all’improvviso, titubante, con le posate in mano. Rallentò tutto attorno a lui, e poi a me, e mi tornarono in mente quadri antichi e grandi vascelli pietrificati, nella tela, nell’istante prima di rovesciarsi. Un attimo dopo si risvegliò, guardò le posate che teneva in mano e le posò non accanto al piatto, a destra e a sinistra, bensì lungo il bordo del tavolo, paralleli e in fila indiana. Si fermò a guardare il risultato, per un secondo, e subito tornò a sorridere, grato a se stesso di aver trovato una soluzione; passò al posto a lato e ripeté la stessa operazione.
Non pensai mai a uno scherzo o un momento di leggerezza; seppi da subito che quello era un inizio. Le corse in paese in pigiama, gli sterpi nei vasi, al posto delle rose, il fuoco acceso sul nostro tappeto, in salotto, quel tappeto memorabile, che ci era costato tanto alla dogana di Algeri, vennero dopo, veloci e voraci come tante cavallette; e provare a contenere i danni era talmente inutile che nemmeno ci provai. Tanto dispendio, però, fu ripagato da altro: ché di nuovo, dopo anni di silenzio, lui tornò da me.
All’inizio mi stupii, qualche giorno dopo le posate in fila, perché avevamo da tempo sostituito i sospiri alla dolcezza dell’affetto. Ma lo stupore fu piacere, e coscienza della sua pelle non più tesa, e della mia lo stesso; e fu sorpresa del suo vigore: mio marito ebbe, in quegli ultimi anni, un uccello che nessuna donna del paese aveva mai visto, per lo meno in quella forma. Se ci pensavo sorridevo, e sorridevo orgogliosa osservandolo, tra le mie mani, e indugiando sui particolari: mi ricordava la freschezza del nostro orto, e quelle zucche allungate, che se ci batti le nocche restituiscono un toc toc pieno, e vivo; e quando esploravo la punta col pollice pensavo a un bel fungo, grasso e delicato, e gioivo con lui.
Mentre crescevano i suoi giochi, le serenate notturne e le corse da nudi diminuivano velocemente gli ospiti, e posso dire con onestà che non feci nulla per fermarli. La normalità delle cose, e il loro posto giusto, causavano in mio marito uno smarrimento crudele: perché avrei dovuto imporgli una giustezza crudele? Grazie al cielo la casa era nostra! Quando vennero meno i pensionanti, e scomparvero i rinfreschi estivi, cominciai ad attingere ai nostri risparmi, che pure non erano pochi; e se ci furono sperpero e tartufi e fiori freschi ogni mattina io non posso rimproverarmelo: a lui, nato felice, servivano per ricordarsi chi era, e per concludere le giornate con un sorriso che mi era tanto caro.
Nessuno capì perché due vecchi, ché tali oramai eravamo, avessero bisogno di bagnarsi nello stagno ad ogni ora; ma la vergogna di quando ci sorpresero a riva, lui steso con le mani intrecciate dietro al capo, con gli occhi aperti e le nuvole che gli entravano dentro, e io che glielo succhiavo – la vergogna, dicevo, fu solo degli altri. Padre Mariano ci provò, a venirci a trovare; ma oltre al the e alle lingue di gatto non poté arrivare, e perdemmo anche lui, in pochi minuti, quando mio marito gli chiese serafico se aveva tempo per restare con noi e guardarci scopare: siamo bravi, padre, davvero, sa?
Ora sembra una vita, sulla bocca della gente, ma in realtà bastò qualche anno per accompagnarlo in fondo e lasciarlo morire felice, così com’era nato. Ricordo bene il giorno in cui mi lasciò, perché era l’ultimo di novembre, di nuovo quel mese, e noi si stava stretti uno all’altro sotto due trapunte, senza riscaldamento oramai da un po’. Si era indebolito, infine, e faticava a ballare e persino a mangiare; ma mai, mai mi fece mancare di presentarsi vestito di tutto punto, e sbarbato, anche con l’acqua fredda; e quando i fiori scomparvero si appuntò all’occhiello un foglia secca, di qualche bel colore. Così fu quel giorno, il giorno che sapevo che sarebbe successo, che mi raggiunse a letto completamente vestito, e mi strizzò l’occhio, sorridendo, e aveva le mani lisce e fredde, che percorsero la mia schiena come per la prima volta prima di fermarsi, ormai convinte sulla mia testa.
Chi vuol sapere sappia che mentre prendevo il suo uccello in bocca sentivo il ritmo che mi dava, sulla mia testa, farsi sempre più lento, e profondo, se si capisce; e venirmi in bocca, mentre rilassava le dita tra i miei capelli, e sospirava beato, fu il suo ultimo regalo. Restai appoggiata alla sua pancia, senza guardarlo in viso, finché il calore del suo corpo non ci lasciò. Poi mi alzai piano, un po’ contratta, infilai le babbucce col pelo e la vestaglia e mi guardai attorno, chiedendomi se qualcuno avrebbe mai potuto comprare quella che era stata un giorno la nostra bella casa.