Quinta edizione 2009 • vincitore prima categoria

Verso Nord

William Sperandio

William Sperandio

Nasce a Montebelluna (TV) nel 1991 da madre francese e padre italiano. Vive a Canal San Bovo (TN) e frequenta il 5° anno del liceo classico a Feltre (BL). Studia chitarra classica da privatista per sostenere il diploma di conservatorio. Attualmente ha superato l’esame di compimento medio (8° anno). In questo campo ha ottenuto riconoscimenti nazionali (Spoleto, Umbria 2004, 1° classificato) e internazionali (Gorizia, Friuli 2006, 3° classificato; Modena 2008, 1° classificato). Ha soggiornato in Francia e Germania frequentando scuole francesi e tedesche. È cittadino italo-francese bilingue; parla e scrive anche in lingua tedesca e inglese. 1° classificato nella 1ª cat. a "Frontiere-Grenzen” 2007 (Premio Speciale Cassa Rurale). È intenzionato a frequentare un corso di laurea in "Scienze e relazioni internazionali” presso l’Istituto Sciences Po a Parigi. Ama la lettura ed i viaggi all’estero. Chatta con stranieri ed italiani; pratica attività sportive, preferendo il nuoto e lo sci.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

"Verso Nord” è un racconto misterioso e, proprio perché tale, affascinante. Teo, un uomo che ha vistosi scompensi di memoria ed è salito sul treno per andare in Germania dove lo aspetta una difficile operazione, incontra nella cuccetta del vagone letto un vecchio compagno di scuola, allora chiamato da tutti Tappo, che rievoca con lui un episodio cruciale della loro infanzia.
Dopo che la conversazione è stata interrotta da una telefonata di Lia, la moglie di Teo, Tappo misteriosamente scompare. Ai lettori del racconto resta l’impressione che i confini tra realtà e fantasia (gli ingredienti che costituiscono la storia) siano labili e permeabili, come quelli tra memoria e oblio nella mente confusa del protagonista.

IL RACCONTO

La convocazione arrivò in aprile, quando avevamo quasi smesso di aspettarla. Lia era in piedi vicino al ciliegio e mi sorrise quando entrai nel prato con la posta. Era stata una primavera piena di sole.

Le diedi la lettera, io l’avevo già aperta, e mentre la leggeva presi un ramo e cominciai a sfoltirne i fiori. Già il prossimo lunedì, disse. Sì, commentai. Non c’è scritto per quanto tempo dovrai restare, aggiunse lei. Parlavano di una settimana, dissi, ma bisognerà vedere come vanno le cose. Quando mi voltai, lei distolse lo sguardo e io capii che stava per mettersi a piangere. La guardai mentre attraversava il prato per raggiungere la porta della cucina.

Domenica sera mi portò in città alla stazione. Cominciava a imbrunire e mentre stavamo lì ad aspettare si accesero i lampioni. La abbracciai. Salgo sul treno, le dissi. Presi la valigia, salii e lo percorsi a ritroso fino ai vagoni letto. Quando arrivai non c’era nessun altro, tranne uno spazzolino in un bicchiere di plastica poggiato sulla mensola sotto lo specchio. Mi avvicinai al finestrino. Lia era ancora sulla banchina. Ci volle un po’ prima che riuscisse a scorgermi. Venne verso di me e si fermò esattamente davanti, sembrava che volesse dirmi qualcosa. Le feci segno che il finestrino non si poteva aprire. Ci guardammo forse per un minuto. Poi lei abbassò gli occhi, si voltò e se ne andò.

Appesi la giacca del vestito ad un attaccapanni vicino al finestrino, chiusi la porta e mi sdraiai nella cuccetta inferiore. Poco dopo i pensieri cominciarono a fluire liberamente e mi appisolai. Mi svegliai perché uno sconosciuto, chino su di me, mi toccava il braccio. Scusi, lei è sdraiato nella mia cuccetta, disse. Indicò il suo biglietto tenendolo davanti a me. Il treno si era messo in marcia. Ma sei tu, Teo esclamò, io lo guardai. Odorava leggermente di alcol. Niente in lui mi era familiare. Non ti ricordi di me? mi domandò. No, risposi. Sono Tappo. Mi guardò speranzoso. Tappo? dissi io. Fece una risatina. Era così che voi mi chiamavate, spiegò. Gli dissi che non mi ricordavo di nessun Tappo, che mi stava scambiando per un altro. No, no, no. Tu ti chiami Teo? Sì, risposi. Allora ci conosciamo, concluse lui. Si coricò nella cuccetta inferiore, come avevo fatto io. E così non ti ricordi del ragazzone della sezione A? No, risposi. Il ciccione che voi chiamavate Tappo? Non dissi nulla. Ma io di te mi ricordo bene, aggiunse. Teo dai capelli biondi. Teo con la bici da cross. Teo che si calava le braghe quando passava l’autobus. E così adesso vai in Germania? mi chiese. Sì, risposi. Affari? Scossi la testa. Devo fare un’operazione, dissi. E per farla devi andare fino in Germania? domandò. Mi accorsi che qualcosa di familiare in lui c’era, ma facevo fatica a individuare cosa. Tirò fuori una fiaschetta dalla tasca dei pantaloni, ne bevve un sorso e me la allungò. Quando bevvi la gola mi andò in fiamme. Gli ridiedi la fiaschetta, tolsi la giacca del vestito dall’attaccapanni e con calma la infilai. Te ne vai? chiese. Ho bisogno di una birra prima di andare a dormire, risposi. Certo, mi disse, certo.

Era un treno moderno, aveva le porte che si aprivano prima ancora che io riuscissi a toccarle. Nel vagone ristorante non c’era nessuno. Presi una birra e andai a sedermi a un tavolo vicino al finestrino. Mentre bevevo fissavo attraverso la mia immagine riflessa la notte che cominciava a scendere. Forse il fatto che non avevo mangiato, non saprei, ma l’alcol ebbe su di me un effetto immediato. Finii la birra e ne comprai un’altra. Di tanto in tanto il treno si inclinava dandomi una sensazione di vertigine. A metà della terza birra il telefonino cominciò a vibrare nella tasca interna della giacca. Lo tirai fuori, ma tutto era così lontano, rimasi seduto a guardare il suo nome sullo schermo pensando che una conversazione non ci avrebbe fatto sentire più vicini. Quando smise di suonare, lo spensi e lo infilai di nuovo nel taschino. Non rispondi? chiese una voce. Era Tappo, che era entrato nel vagone ristorante e stava in piedi al banco. La cameriera, in procinto di servirgli una birra, mi lanciò un’occhiata. Dissi: non sempre si è nello stato d’animo giusto per parlare. Tappo prese la sua birra, pagò e si sedette al mio tavolo. E così non vuoi parlare con tua moglie? mi domandò. A quanto pare ne sai di cose su di me, tu, commentai. Non c’è mai molto da sapere, e comunque è assolutamente normale che il fallito ricordi il vincente ma non viceversa. Gli domandai: perciò tu ti consideri un fallito? Sì, rispose. Mi guardò dritto negli occhi. Sai, disse, prima provavo ammirazione per te. Perché? gli chiesi. Eri molto sicuro di te, piacevi alle ragazze, eri bravo a scuola... Ma poi, aggiunse, un giorno ho smesso di provare ammirazione. Gli domandai quando. È stato quell’anno in cui tutti avevano un aquilone, raccontò Tappo. Te ne ricordi? Si vedevano aquiloni ovunque. Non appena spirava un minimo soffio di vento, ecco, si alzavano dai prati del paese. Me ne ricordavo. Tappo si ricordava perfettamente del mio aquilone. Era il più bello che avesse mai visto.

Un giorno in cui soffiava una brezza leggera, il mio aquilone era balzato sopra la gru che a quel tempo si innalzava sul fianco della collina a valle della nuova scuola e la fune era rimasta impigliata lassù. Tappo descrisse il gruppo di ragazzini che si era riunito ai piedi della gru, raccontò di come se ne stessero tutti lì, in piedi, emozionati al vedermi scavalcare la palizzata di sicurezza vicino alla scuola. Mi ero arrampicato oltre la cabina del manovratore arrivando fino al punto in cui la scala terminava e là mi avevano visto sdraiarmi e cominciare a trascinarmi lungo il braccio della gru verso l’esterno, dopo poche bracciate, però, mi ero fermato ed ero rimasto immobile. Era stato allora che il panico aveva cominciato a diffondersi in me. Credevano che avrei perduto i sensi e che sarei caduto da un momento all’altro. Si misero a gridare il mio nome. Teo! urlavano. Dai Teo, dai! Alla fine qualcuno era corso a chiamare gli adulti.

Vi siete spaventati davvero? gli domandai. Certo, mi rispose lui. Però, credimi, io ti ho invidiato. Ma ci pensi, tutto il gruppo che sta lì a urlare il tuo nome! E quanto abbiamo esultato quando sei sceso. Mentre Tappo raccontava, l’inserviente del ristorante accese e spense le luci sul soffitto perché capissimo che era ora di andarcene. E poi, domandai, cosa accadde? Le parole gli si strozzarono in gola e portò il bicchiere alle labbra, ma si accorse che era vuoto e lo appoggiò di nuovo sul tavolo. E così hai smesso di provare ammirazione per me? gli chiesi. Fece un segno affermativo con il capo. Non ho più provato ammirazione per niente, disse lui. Un bigliettaio attraversò il vagone e si fermò davanti a noi. Teo de Belfi è uno di voi? domandò. È lui, disse Tappo facendo un cenno con la testa verso di me. È desiderato al telefono, spiegò il bigliettaio. Venga con me. Prima di andarmene lanciai un’occhiata a Tappo, ma i nostri sguardi non si incrociarono, lui era rimasto seduto a testa bassa sfregandosi il collo. Seguii il bigliettaio attraverso gli scompartimenti. Arrivati in testa al treno, aprì una porta con una chiave che teneva appesa a una corda elastica ed entrammo. In fondo alla stanza una porta scorrevole semiaperta dava sulla stanza del bigliettaio e lì accanto era appeso un telefono. Appoggiai la cornetta all’orecchio e dissi pronto, ma nessuno rispose. Lia, dissi, che cosa c’è? Allora sentii la sua voce. È il buio, rispose semplicemente. È per questo che hai chiamato, le dissi. Mi domandò perché avessi spento il cellulare. Si è scaricata la batteria, le mentii. I fari del treno gettavano bagliori spettrali sui binari che correvano nell’oscurità, verso nord, sempre più verso nord. All’improvviso piegarono di lato e il treno, inclinandosi, imboccò una curva lanciando un fischio. Che cosa è stato? domandò Lia. È solo la locomotiva, spiegai. Oh, disse lei, credevo fosse una sirena. Le raccontai che avevo incontrato un vecchio conoscente. Volle sapere chi fosse e io le risposi: Tappo. Tappo? domandò. Era così che lo chiamavamo, spiegai. Era uno di quelli che prendevate in giro? chiese. Non so, dissi, non mi ricordo di lui, lui si ricorda di me, ma io non mi ricordo di lui. Lia parve disperarsi: oh, no, disse, di nuovo la tua memoria. Io non commentai. Perché lo prendevate in giro? chiese. Non so, le risposi, io di lui non mi ricordo. Oh, Teo, esclamò lei. Stai tranquilla, è assolutamente normale che uno si dimentichi di quelli che... Quelli che? domandò lei. Cambiai discorso. Le domandai come avesse fatto a trovare il numero di telefono, che cosa avesse detto per riuscire a parlare con me. Non mi rispose. Qualcosa devi pur aver detto, insistetti io. Ho detto che eri malato, ammise lei. Ho detto che forse non ci saremmo più rivisti. Cominciò a piangere. Lui, Tappo, devi chiedergli scusa. Sì, le dissi. Lo prometti? Sì, risposi. Teo, domandò, mi ami? Lei rise brevemente e tirò su col naso. Dopo un po’ dissi: adesso metto giù. Ti amo, aggiunsi. Poi riattaccai.

Tornai al vagone ristorante. Le luci erano state spente e sopra il bancone era stata calata la saracinesca. Non c’era più nessuno. Proseguii attraverso gli scompartimenti ed entrai nel mio vagone letto. Tappo non c’era. La fiaschetta era appoggiata sul cuscino e sul pavimento davanti al lavandino c’era un borsone rosso. Mi sedetti sulla sua cuccetta. Rimasi seduto così, ma Tappo non arrivò e alla fine devo essermi addormentato perché ricordo solo che ad un tratto nello scompartimento c’era molta luce, che avevo mal di testa e che il piumino era umido di grappa. Mi alzai e mi cadde lo sguardo sullo spazzolino da denti di Tappo. Aveva avvolto intorno al manico dello scotch per avere una migliore presa. Decisi di farmi un giro per il treno. Andai fino alla locomotiva senza imbattermi in lui. Controllai le porte per scendere dal treno, per vedere se fosse stato possibile aprirle in corsa, ma non lo era, lo stesso per i finestrini. Tornai al mio scompartimento e rimasi seduto lì, sulla cuccetta di Tappo, fino a che il treno non giunse a destinazione. Dopo pochi minuti qualcuno bussò alla porta. Era il bigliettaio. Voleva solo accertarsi che tutti fossero svegli. Gli chiesi se avesse visto quel tizio in giacca con cui stavo parlando la sera prima. Lui ci pensò su, ma non riuscì a ricordare di averlo incontrato. Sarà sceso in una stazione intermedia, disse. Già, commentai, sarà così.

Mi sembrò giusto prendere con me il bagaglio di Tappo. Misi lo spazzolino da denti e la fiaschetta nel suo borsone, che risultò essere vuoto fatta eccezione per un collare ortopedico in plastica e gommapiuma. Poi presi la mia borsa e scesi dal treno. Una scala mobile mi portò in sala d’attesa, dove il sole risplendeva già attraverso le grandi vetrate. Mi diressi verso la coda che aspettava il taxi e presi posto sul sedile posteriore della prima automobile. All’ospedale, dissi.