Prima edizione 2001 • primo classificato prima categoria

Frontiere (Tom Joad)

Paolo Chiocchetti

IL RACCONTO

— Nuovi scontri in Medio Oriente. Un palestinese è morto e altri quindici sono rimasti feriti durante un’operazione di polizia contro l’ospedale di Nablus, sospettato di essere un covo dei terroristi islamici di Hamas. “Difenderemo la sicurezza del paese con ogni mezzo necessario”, ha dichiarato il portavoce del governo di Tel Aviv. Dai negoziatori statunitensi è intanto giunto l’ennesimo appello ad Arafat perché cessi le violenze e torni al tavolo delle trattative...

Cerco di buttar giù il minestrone. Spesso il cucchiaio indugia a mezz’aria mentre il brodo cola sul piatto fumante, lento, scoprendo i cubetti di patata, le carote, i granelli di pasta. Occhi bassi, alla TV una voce impostata snocciola le notizie del giorno.

— Disoccupazione. I nuovi dati ISTAT segnalano un leggero aumento del numero di disoccupati che raggiunge il 10,7%. “C’è ancora troppa rigidità nel mercato del lavoro e questo frena la crescita economica. E’ ora di farla finita con una società a due livelli, dove una minoranza di lavoratori iperprotetti congela le opportunità della grande maggioranza dei non garantiti”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio.
La zuppa scotta, scorre giù per la gola come mercurio liquido, faccio fatica ad inghiottire. Un po’ di formaggio grana, forse? Mi verso un bicchiere d’acqua minerale.

— Monta la polemica politica sul tema sicurezza dopo i terribili fatti di Civitavecchia. Il centro-destra invoca il pugno duro contro gli extracomunitari. Replica il responsabile immigrazione del centro-sinistra: “No a facili strumentalizzazioni. Sì ad una repressione dura della microcriminalità e a rigorose misure di controllo dell’immigrazione”.
Mamma sonnecchia, le mani posate in grembo.
Papà succhia rumorosamente l’ultimo cucchiaio, pulendosi le labbra con il tovagliolo.

— Questi marocchini! Mandarli tutti a casa, bisognerebbe. Vengono qui e pensano di comandare. Ma se fosse per me, eh eh, via, raus!
Un sussurro. — Che discorso di merda. — Silenzio.
— Cosa hai detto?
— Che discorso di merda. — Mi guarda sbigottito. — A casa dove? Sono poveracci che scappano dalla miseria e dalla guerra… — Non capisce. — Se non venissero qui morirebbero di fame!
Si scuote, la meraviglia dipinta sul volto.
— Ma che dici? Non hai visto di che cosa sono capaci quelle bestie? Hanno ucciso una vecchietta per rubarle la pensione minima!
— Era uno psicopatico! Non puoi generalizzare…
— Sono tutti così. Cosa fanno giorno e notte intorno alla stazione, nei parchi, nelle piazze? Spacciano!

— Alcuni spacciano, sì, ma spesso è l’unica strada che hanno. Vengono qui senza permesso di soggiorno e non trovano lavoro… Dovranno pur vivere in qualche modo!
— Ah già, comodo! Non ho voglia di sudare e piegare la schiena e allora mi metto a rubare e vendere droga. — Più duro. — Cristo, otto, dieci ore in fabbrica mi faccio io, per dar da vivere bene a tutta la famiglia. Non vado a rapinare banche! Abbiamo fatto sacrifici, i tuoi studi da pagare, il mutuo, ma alla fine l’appartamento ce lo siamo comprato, milione su milione… che diritto hanno questi negri, questi albanesi di venire qua e pretendere la casa gratis, il lavoro, la bella vita? Portarci via il lavoro, la roba…

Una piccola fitta mi stringe la bocca dello stomaco. Da una parte mio padre, alla catena, a sudare e fissare dadi e bulloni, per noi. Dall’altra Ahmed, Mozambico, cantiere di fronte all’università. La moglie, l’ho vista un giorno. Una gamba l’aveva lasciata su una mina a Quelimane.
— Papà, non è così. Chiedono solo una vita dignitosa, non vogliono portarti via niente. — Respiro.
— Se domani mandassimo a casa tutti gli stranieri, si fermerebbe metà del paese. Ormai sono loro a fare i mestieri sporchi e pesanti, quelli che gli italiani non vogliono più. Non ti ricordi che zia Tina ha cercato per mesi una donna per il padre del marito, e l’unica che alla fine si è presentata è stata una ragazza polacca? Hai visto chi lavora nei campi di mele o pomodori?

— Sì, lavorano… so ben io come lavorano. Portano in giro il vecchietto, gli fanno un po’ di moine, si fanno sposare e il gioco è fatto! Basta farsi mantenere e aspettare l’eredità…
— Non capisci…
Sali, ventun anni, albanese. Spacciatore di eroina, gli capita spesso di lasciare il “concorrente” di una banda rivale a terra con la pancia bucata. La sera torna a casa ubriaco e con la sua ragazza, una diciassettenne dolce e terrorizzata, quasi sempre finisce a botte. Un bastardo di merda, insomma. Eppure…
Eppure se penso alla sua storia - se è possibile chiamare storia questa verità appena coerente ricostruita da un intreccio di ricordi, invenzioni, frammenti di leggende passate chissà quante volte di bocca in bocca e menzogne impastate da inconsapevoli intuizioni - lo vedo in maniera diversa. La dittatura stalinista di Hoxa. Ragazzino, il miraggio della terra promessa, il Bel Paese di Fantastico, dei centri commerciali, di Miss Italia e dei telequiz. Il viaggio in gommone, di notte, al freddo, schiacciato tra il fucile di uno degli scafisti e il pianto di un neonato. E la vera Italia, da zio Vanja.

Le cinghiate, il brodo di cavoli e il marciapiede. Tra le mani di quei vecchi in Mercedes era quasi impazzito. Poi il vecchio Vanja aveva commesso l’errore di metterlo nel giro della droga. A stare in mezzo alle bande Sali aveva imparato molto in fretta. Ci aveva preso gusto a maneggiare coltelli… e una sera di novembre, ormai agli ordini della cosca pugliese, aveva regolato i conti in sospeso con lo zio.
Un criminale spietato. Ma allo stesso tempo il prodotto di una vita di ininterrotta violenza. Mi farà sempre orrore, ma comincio ad odiare anche tutti quelli che avevano il potere (albanesi, italiani) e che hanno contribuito a renderlo così.

— Non capisco? Per ogni regolare ci sono dieci clandestini! Perché non vengono con tutte le carte in regola allora? Perché sono dei delinquenti!
— Ma non glielo danno il permesso! In Europa ci sarebbe posto per tutti, è chi sta al governo che ha interesse a tenerli nell’illegalità per ricattarli, per sfruttarli. E’ una guerra tra poveri! Anni fa noi eravamo esattamente come loro, in America ci trattavano allo stesso modo. I padroni…
Mi interrompe, un tono gelido. — Ah, bene! Adesso abbiamo anche una comunista in famiglia, a quanto pare.
— Vediamo allora. Quanto ti piacerebbe se uno di questi tuoi amici spacciatori adesso entrasse da quella porta per far valere i suoi diritti?
— Immagina. Entra da quella porta, sparando in aria. Prima, col calcio della pistola, tira un colpo in bocca a tua madre, la fa cadere per terra con i denti rotti, il sangue che schizza su tutto il pavimento…
— Mario! — La mamma, spaventata.

—… la butta sul pavimento (avrà pur diritto a una casa) e poi mi punta il ferro proprio qui, alla tempia. “Fuori i soldi!” Ma sì, avrà pure il diritto di mangiare… Prendo tutto quello che abbiamo, i portafogli, i gioielli di mamma, il mio orologio del matrimonio, le chiavi della macchina, mentre il suo amico in passa montagna fa saltare tutti i vetri in cerca di argenteria. Si guardano negli occhi: “Troppo pochi! Dove li hai nascosti, bastardo?” e cominciano a spaccare tutto, pugni, calci… Non trovano niente, si stufano e fanno per andarsene. Ma prima di uscire al primo viene in mente qualcosa. Si gira. Torna indietro di qualche passo. Mi ripunta la pistola alla nuca, lentamente, e… bang!

Comincio a tremare. La testa mi rimbomba di immagini, frasi, grida.
— Smettila! — Di nuovo mamma, sconvolta.
— No, non è ancora finita. — Un sorriso folle gli solca il viso. — Prima di andare a bersi il ricavato nelle loro baracche occupate, c’è un ultimo lavoretto da fare. Lasciar perdere una ragazza bianca, così giovane e carina? Sarebbe un peccato, avranno pur diritto anche loro ad una donna
Sto male. Trattengo un conato di vomito, poi un altro, il sapore aspro degli acidi in bocca. Corro in camera, sbattendo la porta con tutte le mie forze. Mi butto sul letto. Bastardo. Bastardo. Bastardo. Me lo vedo lì davanti, con quel sorriso, gli salto sopra, lo prendo a pugni, dieci, venti, trenta, sul muso, in pancia, sul petto, afferro i capelli e tiro… le lacrime, a stento trattenute, cominciano a scorrere lungo le guance.

Socchiudo le palpebre. Un bagliore caldo mi ferisce gli occhi. Li copro con la mano, girando dall’altra parte la testa indolenzita. Ma che ore sono? Guardo l’orologio: le nove e venti di mattina. Ho dormito tutta la notte così, vestita? Ma cosa è successo ieri sera?
Pian piano la memoria si fa strada nella mente assonnata. Ah, sì, ho litigato con mio padre. Per un attimo mi torna in corpo quella rabbia sterminata, la mano destra si chiude in pugno… E poi scoppio a ridere.
Sì, ho litigato con mio padre. Ma gli ho comunque parlato. Per una volta, ho rotto quella barriera che mi faceva restare lì silenziosa, ad ascoltare e rimuginare tra me e me il giusto e l’ingiusto, a incazzarmi, a esultare, tutto senza tradire alcuna emozione.

Lui ha detto delle cose orribili, ieri. Ci penso. Una volta, un amico è piombato in casa nel cuore della notte. Licenziato, la moglie non ci aveva messo una settimana a prendere il bambino, salire in macchina e rifugiarsi nelle calde bracci protettive dell’amante. Beh, papà gli aveva stretto le spalle e messo in mano una Budweiser, senza dire una parola. Quella notte aveva dormito lì, nella stanza degli ospiti. Il giorno dopo si sveglia e trova mio padre seduto al tavolo di cucina, una tazza di caffè in una mano e una penna nell’altra, a studiarne la superficie completamente ricoperta da fogli di giornale (la prima e l’ultima volta che vidi della carta stampata a casa mia).

— Cosa fai qui? Non dovresti essere al lavoro? — chiede, stupito.
— No, ho preso una giornata di ferie. Dobbiamo trovarti un bel posto! Purtroppo queste offerte non sono un gran che, finora… — Era in piedi dalle cinque, a sottolineare annunci di lavoro!
Ecco, ho mai fatto qualcosa del genere io? E allora, perché lo accuso tanto? Sì, ha i suoi difetti, come tutti. Ma perché soffermarcisi con rabbia, se non ho mai detto niente per farglieli riconsiderare? Perché non lavorare sui miei?

Sento dei passi nel corridoio. La punta di due scarponi si affaccia sulla soglia della camera. — Posso?
— Vieni, papà.
Si siede sul bordo del letto. — Scusa per ieri. Ho detto tante cazzate.
— Fa niente, è tutto passato. — Lo guardo negli occhi. — Ma a proposito, che ci fai tu a casa? Non dovresti essere al lavoro?
Sorride. — Mi sono preso una giornata di ferie.
— Così potrai spiegarmi meglio le tue idee sulla società moderna — aggiunge. — E’ da tanto che non passiamo un po’ di tempo assieme.
Sorrido anch’io. — Guarda che non ho mica la verità in tasca! Sono cose complicate…
— Che dici, ne parliamo al bar, davanti ad un bicchiere di… birra?
Grande.
— Approvato, papà. Davanti ad una bottiglia di Lambrusco.