Prima edizione 2001 • Premio speciale Cassa Rurale 2001

Zenzero

Chiara Gobber

IL RACCONTO

Seduta. Sola. Ancora sola. Al bancone dello stesso locale.
Da quanti giorni ormai ?
Osservo quella ragazza. Non posso far altro. Avvicinarmi a lei. Chiederle qualsiasi cosa sarebbe inopportuno. Sarebbe varcare un confine che lei sembra aver tracciato attorno a quella sua personcina tanto esile.

Alcuni le si avvicinano. Parlano. Lei scosta pigramente la sigaretta dalle labbra. Sbalordita da questa incursione. Conosce quella gente, ma nei suoi occhi c’è solo smarrimento. Lo stesso di quel ragazzo....
“ E’ tutto in regola. Sono Bosniaco ma ho il passaporto croato. Posso entrare? La prego...E‘ notte.. Fa molto freddo”
“ Mi dispiace, ma dobbiamo prima effettuare dei controlli”
“ Cosa state facendo...? I miei bagagli...”
“ Una normale perquisizione. Queste cosa sono ?”
“ Delle palline da giocoliere. Faccio del teatro da strada”
“ Apritele”
“ Noo ! ! Fermi !Sono un caro ricordo...Mi servono per lavorare...”
“ E questa cos’è ?”
“ Sabbia.. Della banalissima sabbia...”
Zlatko. L’ho conosciuto la scorsa primavera mentre tornavo da quella sfortunata gita al mare. Al confine sempre la stessa gente. La stessa dinamica d’azione. La fila scorre quando qualche Italiano esibisce il documento.

E si blocca per tempo indeterminato quando chi cerca di espatriare esibisce documento croato. O sloveno. O serbo. O bosniaco. Aveva lo sguardo della ragazza misteriosa, Zlatko, quando degli zelanti finanzieri hanno lacerato le sue colorate palline cercando della droga. Esterrefatto. Disperato.
Attraversava il confine a piedi. Era arrivato in autostop da quel che resta di Tuzla. Ho deciso di accompagnarlo fino a Trieste. Perché gli Italiani non sono tutti sospettosi. Come tutti gli autostoppisti non sono dei barboni pericolosi. Come tutte le palline da giocoliere non contengono droga.

E’ stato in quei pochi minuti in macchina assieme.
E’stato il mio inglese incerto a farmi credere che lo scoraggiamento umano sia scritto negli occhi della gente. Gli occhi non sono lo specchio dell’anima, ma degli ostacoli che uno si porta dentro.
Quando uno riconosce attorno a sè solo gente lontana. Come un finanziere al confine.
Quella ragazza ha il suo sguardo. Come se a parlarle, a darle quel bacio sulla guancia, non fosse gente cresciuta con lei ma un ostile funzionario a cui dare delle spiegazioni. A cui esibire un documento per raggiungere l’altra parte del mondo.

E al tempo stesso però quell’aria di sfida. Di chi non deve, ma sceglie di attraversare o meno quella barriera. Di chi alle volte la costruisce.
Continuo a fissarla da lontano. Come se il mio sguardo insistente potesse superare quella cortina e scavare in fondo. In fondo alla tristezza dei suoi occhi.
“ Posso entrare ?”
“ Non ora. Ci sono troppi problemi. Non è un bel periodo. Quel problema con mia madre.. E il lavoro...”
“ Mi stai sbattendo la porta in faccia ?”_”Vuoi che me ne vada ?”
È inutile questo tuo tono ironico - penso fra me - inutile e quasi patetico.
“ E‘ quello che ti sto dicendo. Non è il momento. Un’altra volta.” Con un’altra persona, magari.
Quella sera - tempo fa - eravamo ancora più vicine. Perché seduta, da sola, a quel bancone, c’ero anch’io. Anch’io, che pochi minuti prima avevo allontanato in malo modo lui.

Lui, quel lui per il quale qualche mese prima avrei rinunciato alla mia stessa vita. Lui, dal quale dipendeva il mio star bene o il mio star male. Lui, l’unico al quale era dato il controllo della luce nei miei occhi. E quella sera l’avevo allontanato. Un allontanamento interiore,che meditavo da tempo. Ed un certo tono plateale a tutta la situazione. La porta.

Quel possente portone di legno fra noi due. Lentamente. Perché potesse percepire ogni minimo cigolio. Ogni centimetro che si frapponeva tra di noi. Da quel momento. Per sempre.
“ Vuoi che me ne vada ?”.Certo che era quello che volevo : poterlo osservare dall’altra parte del muro.
Non dovermi più preoccupare per lui. Di lui. Di me. E mentre osservavo questa ragazza, così vicina da intimorirmi, e i suoi occhi dei quali riuscivo a cogliere ogni sfumatura anche solo dall’angolo dell’occhio, cercavo inconsciamente il mio volto in qualche specchio del locale. Per leggere me stessa nell’offuscato riflesso in un bar fumoso. E quello che mi compiaceva, che dipingeva sulla mia quotidiana espressione di indifferenza il sorriso sardonico che probabilmente avevo mentre il pesante portone in legno si chiudeva, era che nei miei occhi non vedevo quello che potevo trovare nei suoi.

Continuo ad osservarla. Stasera. Dal mio tavolino.
Mentre Giovanni cerca di farmi interessare a non so quale articolo di non so quale giornale. Io la fisso. Infastidita dall’insistenza del mio compagno. Vorrei avvicinarmi a lei. Ignorare le convenzioni della presentazione. Superare le banali frasi di rito. Solo sedermi vicino a lei. Guardarla negli occhi e dirle l’unica cosa possibile :”Sono come te.
Non devi spiegarmi il senso del tuo sguardo. Il perché dei tuoi movimenti. Il tuo non dire. Sono come te, ma più debole .” Perché, per l’appunto, rimango seduta al mio tavolino.

Annoiata, forse. Stanca, ma sempre pronta a rassicurare il mio intrattenitore con qualche sorriso e qualche battuta. Perché sono più debole, e costruire barriere è un’arte che pochi possiedono.
Giovanni è stanco. Anch’io. Domani partiamo. Per i Carpazi. Per pagare mi avvicino a lei. Sento il suo odore. Il fumo della sua sigaretta mi entra negli occhi, avvolge i miei vestiti.” Arrivederci”, penso fra me e me.

Ma dirle solo questo sarebbe banale.La lascio, per qualche giorno. Senza una parola.
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“ Aprite la porta del vagone...Siamo arrivati alla frontiera..”
“ Passports !”
“ ...”
“ Italians ?”
“ Yes”
“ 50 $”
“ ...” Si paga. Per entrare in Romania.
Il viaggio in treno per la Romania è lungo. Ho deciso di non prendere una cuccetta. Giovanni era di ben altro avviso, ma come sempre ha ceduto. Mentre l’Ungheria mi scorre velocemente dal finestrino, mi chiedo perché sia voluto partire con me. Io voglio vedere l’Est.
Lui probabilmente ambisce a qualche polaroid davanti al castello di Dracula. Non mi interessa. Di lui e del perché sia con me.

A fatica ci appisoliamo su questi scomodi treni che da noi sono ormai riservati alle tratte meno frequentate, mentre qui vengono adibiti alle lunghe distanze. Un rumore costante, forte. Delle voci. Siamo alla frontiera. Alla frontiera rumena. Sfogliano velocemente i nostri passaporti ancora lindi. Parlano tra di loro. Vogliono cinquanta dollari per farci passare il confine. Vedo riflessa negli occhi del mio compagno la Provenza nella quale voleva portarmi. La Provenza che avremmo raggiunto in macchina, senza confini nella grande Europa.

Prendo i soldi dal borsellino. Per me. E per lui. Cento dollari per entrare in questo paese ai margini del mondo.
Come un lungo sogno, e quando mi risveglio sono sullo stesso treno allo stesso confine ma in direzione opposta. Sono passate due settimane. Volate, per me. Infinite, per lui. Chiudo gli occhi e perdo velocemente le coordinate spazio-temporali nelle quali in realtà mi trovo. Rivedo la casa annerita con i grandi falò all’interno.
Rivedo il lento scorrere del Danubio, i carri lungo le strade e quel bambino che aspirava colla da un sacchetto di plastica. E accanto a tutto questo, il volto di quella ragazza sola dalla quale sto tornando. E la sua immagine si sovrappone alla mia.

Si sovrappone al mio straniamento quando tornerò e gli amici premeranno per conoscere aneddoti divertenti, e mia madre mi troverà deperita, e mio padre inveirà contro lo Stato. E contro la Chiesa.
E contro l’uomo.
Si sovrappone alla mia, quando, con rassegnazione, una volta scesa dal treno dovrò dire a Giovanni che non ci rivedremo più.
Si sovrappone alla mia quando mi rendo conto che tante volte l’arte non è innata, ma si coltiva, cresce con te e le tue esperienze. Ed ora sto diventando una grande artista : la grande artista del confine. Del confine tra ciò che mi interessa ed il resto.
Il confine tra chi mi fa crescere e chi mi asseconda blandamente. Il confine dove non vengono controllate le palline piene di droga, ma le predisposizioni più profonde.
Sto tornando da lei. Perché lei è come me.

Al momento di varcare la soglia di quel bar mi sento mancare. Come spiegarle cosa è cambiato in me. Come farle capire dove ho trovato la forza di alzarmi da quel tavolino per sedermi con lei.
Quante parole dovrò spendere prima che lei si accorga che quanto abbiamo nel profondo dei nostri occhi è la stessa, identica, non banale cosa. Come convincerla a creare un varco attorno a sè per far passare quanto di buono potrei e vorrei darle.

Perché io non varcherei quello spazio per snaturare la sua essenza ma per darle la forza di confermarla giorno dopo giorno. Come spiegarle che anch’io non posso che guardare il mondo con occhi disincantati e freddi perché ormai troppe cose mi hanno delusa.
Perché ormai il contorno barocco della realtà che arriva sotto i nostri occhi non ha più alcun senso. Come farle capire che io e solo io sono riuscita a comprendere il senso di questo suo muro con l’esterno ? !

Entro. Prendo uno sgabello. In legno con un pesante piedistallo in ferro. Lo accosto al banco. Vicino a lei. Ma non con lei. Ogni parola sminuirebbe il senso di quanto entrambe stiamo facendo. Mi siedo e ordino da bere.