Prima edizione 2001 • segnalato prima categoria 2001

Liri-A

Alessia Bellusci

IL RACCONTO

Il caldo le si gelava addosso e il sudore scendeva a rivoli tra i vestiti stropicciati che ormai formavano un tutt’uno con il corpo. Il vapore nella macchina paralizzava il respiro e la tappezzeria scura di velluto pareva avvolgere tutto con il suo odore di naftalina.
Le valigie erano accartocciate una contro l’altra e gli angoli appuntiti si conficcavano nelle ginocchia un po’ ossute e sporgenti della ragazza seduta dietro.

Gli occhi semichiusi in un’espressione lontana tradivano il sottile piacere del freddo dello spigolo nella pelle. Davanti i genitori, con gesti sgraziati e carte geografiche ormai vecchie, si facevano largo sulla strada sterrata, procedendo diritti, sotto il sole cocente in quella loro confusione di lingue indecifrabili.
Ogni tanto si voltavano verso Lijrja accennando qualche parola strascicata, ma gli occhi della ragazza rimanevano incastonati in un punto lontano, la porta di una rocca imprendibile, l’antro di una grotta inviolabile.

La testa inclinata contro il finestrino appannato, la bocca aperta di chi fatica a respirare e le labbra sottili solcate dall’arsura. Gli occhi erano ciechi di una luce innaturale, in una visione ancora bambina; le orecchie sorde nel silenzio freddo di una musica mai nata. Lijrja non pensava più a nulla; non sentiva il caldo insopportabile che la teneva incollata al sedile, né sentiva il freddo gelido del suo animo morto.
Dietro di lei niente.

I ricordi cancellati nel fumo di una sera, nel nero di una notte senza stelle, nella terra bruciata sotto i suoi piedi. Gli occhi come ghiaccio appuntito, incapace di sciogliersi in un pianto consolatore.
Dentro il suo corpo i frammenti dell’infinito imprigionati nella paura di perdersi.
Il corpo sempre più pesante soffocava senza pietà quello spirito fragile che si era scelto la sua dolce agonia. Lijrja non pareva turbata da quella sensazione di segregazione e di morte, guardava con distacco la coltre scura che la teneva fuori dalla vita.
Davanti a lei niente.

I sogni che le attraversavano lo sguardo da bambina da tempo, avevano perso valore e niente sembrava potesse interessarla e animarla.
Una roccia a picco sul mare che ogni giorno viene sconvolta dalla carezza violenta dell’onda; uno scoglio contro cui l’acqua s’infrange lasciando i suoi nella pietra, incapace tuttavia di penetrarvi dentro.

“ Lijrja, mia piccola Lijrja”, la voce profonda della nonna non la sfiorava più e gli occhi grandi dietro le lenti appannate di quel viso dolcissimo erano stranieri al suo cuore serrato. L’amicizia non la visitava da tempo e l’amore era stato dimenticato con tutto il resto, con la sua breve vita infranta in un istante come un bicchiere di cristallo.
Nel mare dai riflessi verdastri, trasparente come lo sguardo di un bambino, si specchiava solo il nero del suo vuoto e Lijrja vedeva solo il deserto freddo degli abissi.

I luoghi della sua infanzia; verdi vallate e colline dolci, che dietro il loro ventre di terra rossa lasciavano intravedere il mare; le notti stellate nel suo giardino fiorito, quando contava le stelle e le chiamava per nome, con affetto, come fossero amiche lontane, complici dei segreti più intimi e dei sogni più arditi; l’azzurro dei cieli d’estate, sfumato nei ciuffi delle nuvole, che come ballerine discrete di una musica che non si ode, si combinavano in pose diverse, talora buffe; e i pomeriggi uggiosi, quando fuori l’aria era gravida di pensieri grigi e di nebbie fitte e Lijrja passava ore a guardare fuori dalla finestra un punto lontano che non aveva difficoltà a raggiungere sulle ali della fantasia. La sua città, il suo paese, quelle quattro case di pietra che sembravano lì da un’eternità e che pensava non se ne sarebbero potute mai andare.

Quelle quattro case, quelle pietre che da quando era piccola l’avevano salutata ogni mattina e ogni sera, quelle pietre che avevano rappresentato le sue certezze e che non l’avrebbero abbandonata mai. Quelle pietre che invece si erano sgretolate e non avevano saputo difendere il legno dei tetti da un fuoco inestinguibile, da un fuoco cattivo e violento che insanguinava la vita di Lijrja, la sua casa, il suo paese, i suoi sogni da bambina, le certezze che le erano parse incrollabili.

Lijrja non staccava gli occhi dal finestrino e non osava pensare a niente, perché proprio non se la sentiva e sarebbe stato peggio, perché avrebbe visto solo il deserto davanti a sé, un deserto arido e freddo, un luogo di morte e di distruzione, un luogo dove tutto era cambiato, un luogo che aveva cambiato tutti, anche lei.

La macchina andava avanti, per la sua strada; ma se Lijrja avesse trovato la forza nel suo nulla di pensare, si sarebbe chiesto che strada seguiva quella macchina. E forse si sarebbe risposta: “Segue la strada che le indicano i miei genitori.
Ma che strada è? E poi chissà da dove viene questa benedetta strada e dove finisce, dove ci sta portando?”.
No questo non avrebbe avuto il coraggio di chiederselo e tanto meno di chiederlo ai suoi. Il fatto è che si sarebbe interrogata sul significato delle strade, su una metafora un po’ romantica e astrusa, su un’idea vecchia e assurda. Forse le strade erano infinite, o forse avevano una fine nel loro continuare a ripetersi.

Forse la strada in realtà era solo una, avrebbe ragionato Lijrja, forse solo una su tutta la terra, su quel globo immenso e diverso in ogni suo meridiano eppure così maledettamente piccolo e uguale ovunque. Sì forse si sarebbe detta che c’era un’unica strada che si ramifica in vie più piccole, che però erano pur sempre lei, carne della sua carne, i rami di quell’unico tronco, che flessuoso si arrampicava per tutti gli angoli della terra.
Ma se la strada era solo una, avrebbe ragionato Lijrja, allora non c’era che affidarsi al caso, tanto alla fine anche le più piccole succursali di quella ragnatela immensa li avrebbe rimessi sulla strada maestra, in quell’unica strada, che rappresentava allo stesso tempo la certezza e il limite. In fondo, si sarebbero rincorsi agili nelle grotte incantate della sua mente e del suo cuore, in fondo tutta la vita era come quella strada.

L’uomo come quella strada; il suo paese come quella strada. Qualcosa di unico e di assoluto nella frammentazione delle diverse possibilità, ma alla fine uguale e fratello in ogni sua forma.
Alla fine, già, alla fine. E quella macchina, quella maledettissima macchina battuta dal sole, affogata da tutte le valigie e da tutte quelle parole senza senso che uscivano a fiumi dalle bocche dei suoi genitori, quella macchina avrebbe pensato Lijrja, quella macchina s’illudeva di un’illusione amara e crudele, che avrebbe ferito tutti loro come una sferza, quando avrebbero capito che alla fine è proprio uguale dappertutto.

E allora non ci sarebbe stata pace per loro, da nessuna parte, o sarebbe stata una pace falsa di chi ha paura di mettersi in discussione e in gioco. E allora non ci sarebbe stata giustizia per il loro paese martoriato, per la loro casa bruciata tra la sterpaglia, non ci sarebbe stata giustizia per le loro sofferenze, perché qualsiasi diramazione li avrebbe riportati a quella maestra, alla fonte prima del dolore, di quello vero, del dolore del ricordo, del dolore di guardare avanti pensando che quell’unica strada fa il giro di se stessa nell’eternità dei tempi e non c’è illusione e non c’è speranza e si torna sempre da dove si è venuti.

Lijrja che nel suo cuore conosceva i segreti tremendi di quella strada che voleva riportarla a casa, tra le fiamme della guerra, ora guardava i volti disfatti ma sorridenti, mostruosi nella loro ilarità, dei suoi genitori, che ignoravano quel segreto tremendo e si ostinavano a seguire in un circolo vizioso la strada verso la morte, nella ricerca della vita.