Terza edizione 2005 • vincitore premio Cassa Rurale seconda categoria

In questa prigione

Sara Turra

SARA TURRA

Nata a Feltre (Bl) nel 1979, si è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Forlì. Durante gli studi ha vissuto per 9 mesi a Belfast e per 4 in Nicaragua, dove ha svolto uno stage presso l'Ambasciata Italiana a Managua, occupandosi di cooperazione. Dopo gli studi è rimasta 6 mesi in Palestina come volontaria europea.
Da ottobre 2005 è di nuovo in Palestina come coordinatrice del progetto Medhebron, progetto internazionale su media e democrazia dal basso in Palestina, finanziato dalla Commissione Europea.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Un racconto incalzante, aderente, partecipato, quasi in presa diretta, di una delle tante situazioni di conflitto e tensione al confine tra Israele e territori palestinesi. Fissando piccoli particolari, descrivendo uomini e cose, raccontando i soldati e la polvere, chi scrive ci conduce per mano con sicura scrittura - nel cuore del conflitto. Fino al liberatorio grido finale, all'immagine che non ci lascia facilmente: al respirare vento, nella libertà di quella che resta una terra prigioniera.

IL RACCONTO

Chiuso.

Il ponte di Al-khoul bloccato: una sbarra gialla, filo spinato e massi di cemento. Alcuni abitanti della zona stanno attendendo silenziosamente in piedi. Mi unisco a loro e comincio a masticare le noccioline che ho messo nella borsa - qui il tempo può essere molto lungo - offrendone a chi mi sta accanto. Una donna accetta e mi ringrazia, dando inizio ad un monologo in arabo, mentre il bimbo che le sta appeso al collo mi sorride incuriosito e timoroso. Colgo appena qualche parola, dai gesti e dal volto sofferente tuttavia non è difficile immaginare di cosa stia parlando: mi descrive la  sua condizione e la necessità di passare, come tutti del resto, oltre questo check-point.

Aspettiamo.

C’è gente anche dall’altra parte del filo spinato, qualcuno cerca di contrattare un passaggio con i soldati, asserragliati nella torretta di cemento. Chissà che facce hanno.  Chissà se hanno paura di noi che ci accalchiamo dietro la sbarra. O se ridono nel vedere una ragazza, chiaramente straniera, che distribuisce pistacchi e tenta di comunicare con una vecchia in un idioma antico e muto.  Uno di loro - non so neppure in quanti sono là dentro - si sporge dalla finestra con tutta la testa, parla al telefono, di sicuro all’interno non c’è campo sufficiente.

Ridiamo, continuando a stare lì in piedi, quasi fosse una cosa normale.

Nella piccola fortezza l’aria deve essere diversa da quella che si respi-ra fuori. Presto appare un megafono e un soldato ci intima di andar via. Si esprime in ebraico, una lingua che non capisco, tuttavia le parole oggi sembrano avere sempre meno importanza. L’uomo che mi sta a fianco traduce comunque per me e cerca di mediare in questa situazione paradossale agli occhi di tutti. Nessuno si muove, neppure io. Resterò qui, resistendo pacificamente, ma mi sono già stretta le fibbie dei sandali, pronta a correre in caso di bisogno. Dall’alto della torre continuano a gridare - è chiuso, andatevene. Dal basso richieste imploranti per raggiungere casa o il posto di lavoro. D’improvviso siamo tutti studenti, mamme e dottori, ciò nonostante nessuno passa, non di qui. Questa volta neppure il mio passaporto rosso-mattone serve a nulla. La bandiera bianca e azzurra con la stella di Davide sventola presuntuosa. Hebron, città amica di dio da tremilasettecento anni è sigillata ormai da una settimana. In Israele si festeggia il capodanno ebraico e da qui non si esce. La si dichiara ragione di sicurezza, e’ punizione collettiva.

Al megafono viene affiancata una canna di fucile. Il ragazzo deve aver finito la sua telefonata o avervi rinunciato causa gli strilli del suo commilitone. Si rivolgono a me, questa volta in inglese, e mi ordinano di tornarmene da dove sono venuta, ché non vogliono sparare anche a me - Hai capito? - Sì, ma non mi muovo. Le persone al mio fianco si stringono in un gruppo più compatto, hanno una faccia dura, l’atmosfera si fa tesa. Una rabbia sorda mi invade, la sento attraversarmi le membra insieme ad un senso di paura. E’ difficile da gestire. Si andrà a sommare a quella accumulata quotidianamente in questi ultimi mesi. Parole non dette, comportamenti forzati, l’umiliazione di non poter reagire, una finzione che tradisce ciò che penso di fronte ad un soldato armato per fronteggiare civili.

Parole assenti diventano reali e pesanti come pietre mentre il resto mi scivola tra le dita.

Dietro a noi taxi parcheggiati in mezzo alla strada aspettano che qualcuno riesca a passare per portarlo via da lì. Altre persone ci osservano un po’ da lontano: tutti vogliono capire se si potrà accedere al ponte oppure no.

Uno sparo, sobbalzo. Un altro.

L’istinto sarebbe quello di correre, piangere, gridare. Invece, lentamente, ce ne andiamo, passo passo, insieme, sconfitti. Di qui non si esce. Un ragazzino si gira verso i militari di cui non siamo riusciti a vedere il volto - è anche così che si deumanizza il nemico – e li insulta a bassa voce. Quanto impiegherà la sua di rabbia ad esplodere? Lo guardo oltrepassare i taxi, mentre una mano amica apre la portiera e mi indirizza verso il sedile posteriore di un veicolo spazioso. Delle ragazze mi guardano divertite, forse sono contente che neppure io sia riuscita  a passare. Sanno che in ogni caso usciremo da questa prigione, un buco si trova sempre.

Lo sparo è solo un ricordo, i clacson vi si sostituiscono nella mia mente e siamo già fuori dal piccolo ingorgo che si era creato. Proviamo la via più a nord, quella che passa vicino all’insediamento.

La vettura che ci precede rallenta, si gira e torna indietro. Un ragazzetto ci fa segno dal marciapiede: disegna un circolo nell’aria, quasi stesse mescolando con il dito del caffè in una tazza. L’autista esita, sullo sfondo si intravedono due jeep militari messe di traverso a bloccare il passaggio.

Si torna indietro, direzione sud.

Di solito bastano una decina di minuti per andarsene da Hebron. Oggi è già da un’ora che giro intorno a questo muro impalpabile ma concreto cercando un’uscita. Con me decine di persone, per le quali ogni giorno è una lotta. Non uno scontro ad armi pari, ma occupazione militare, forza esercitata sulla popolazione. E purtroppo la gente si e’ quasi abituata – in fondo ci si abitua a tutto.  D’improvviso mi sento soffocare, voglio uscire, scappare, ma non faccio che essere spinta indietro. L’autista mi sorride, per un attimo sembra leggere nei miei pensieri. Poi riprende a comunicare attraverso il telefono cellulare i suoi spostamenti: chiede indicazioni, suggerisce nuovi possibili passaggi, si arrabbia e torna a sorridere con aria di sfida quando imbocchiamo una strada sterrata tra le vigne.

C’è gente che cammina nella polvere sollevata dalle auto, alcuni ci fanno segno di affrettarci. Sembra si sia aperta una falla in questa barriera che ci trattiene. Non si tratta di una vera frontiera, non esistono mappe che la indichino chiaramente. E’ piuttosto una linea che ormai non ha più alcun colore - ma non per questo è meno reale - che ora dopo ora, giorno dopo giorno e così per anni, viene disegnata, implementata e poi spostata a discrezione dei soldati israeliani.

Raggiungiamo uno spiazzo in cima ad una collina: molte auto ferme e persone che discutono animatamente, terra bruciata, montagne di sassi a chiudere la via e sole abbagliante. Scendo dal taxi trascinata dal movi-mento congiunto di compagni di viaggio sconosciuti che mi hanno portato fin qui. Per una volta ho la sensazione di essere invisibile. C’è un panorama irreale da quassù. Una via polverosa interrotta da tre cumuli di sabbia e pietre, e poi giù, in fondo alla discesa, una lingua nera, lucida e piatta. Due strisce di color arancione ben definite ai margini, una bianca al centro. E’ la strada israeliana che porta a Gerusalemme: deserta, riservata ai veicoli dotati di targa gialla e di un permesso speciale. Sulla collina di fronte un serpente umano solca i campi e le vigne. La testa gialla e luccicante composta da vecchi taxi e scuola-bus, là sotto oltre i blocchi di cemento,  il corpo colorato e dotato di movimenti scomposti e indipendenti. Devo arrivare anch’io alla testa, sarò cellula per un po’. 

Fa caldo e bisogna sbrigarsi, non si può dire quanto a lungo il passaggio rimarrà aperto. C’è chi corre sommessamente, chi si sposta a dorso di mulo, dondolando, chi trova il tempo per chiacchierare. La donna davanti a me inciampa su un sasso: porta tacchi alti, un vestito scuro elegante e un bambino in braccio. Passato il primo ostacolo. Il sentiero procede tra le vigne ma nessuno fa caso ai frutti maturi che ci circondano. Già mi sto avviando verso il secondo quando mi ritrovo un grappolo d’uva tra le mani. Il vecchio mi sorride e continua lungo il suo cammino.

Ferma sulla sommità del secondo blocco stradale tento nuovamente di allontanarmi dalla situazione contingente per coglierne appieno l’irrealtà. La presenza di una jeep militare, parcheggiata ad una quindicina di metri da me sulla strada israeliana, mi coglie di sorpresa. I soldati sono lì per bloccare un’altra via parallela che viene dai campi. Non c’è dubbio che vedano il rigagnolo di persone che scorre tra il verde e la polvere. Capiscono che siamo uscendo, ma ancora non si muovono, probabilmente guardano consapevoli dall’altra parte. Lo sanno, non è possibile chiudere Hebron, non ancora.

Allora vengo contagiata dalla frenesia generale che mi circonda e il resto è una corsa tra i sassi fino alla strada israeliana. E’ strano attraversarla. Mi sento scoperta, nuda, il cemento sembra sciogliere le suole dei miei sandali. Vorrei fermarmi ma sono dall’altra parte, tra la gente, parte del movimento collettivo, flusso di cellule colorate. Respiro piano, ho passato la barriera. Percorro gli ultimi metri più lentamente: donne vendono frutta ai lati della strada, un taxista mi ha individuato e già mi chiama da lontano.

Così mi lascio alle spalle per un po’ questa città, che mai lascerà me.

Vento fresco della sera, riempi i miei polmoni, che sia di te cosa sola. Prendimi, che spicchi il volo verso il tramonto, i miei occhi sono chiusi, solo il canto della moschea mi è di guida, tra ulivi e vigneti, tra i panni ormai asciutti sui tetti, oltre le frontiere imposte, oltre i muri di cemento che si vanno sostituendo a quelli umani. Tutto mi è leggero. Respiro vento, sono libertà, in questa prigione.