Terza edizione 2005 • segnalato prima categoria

La fucilazione di Venere

Damiano Springhetti

IL RACCONTO

...alma venus, te fugiunt venti, tibi suavis daedala telus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum... Le labbra vermiglie del crepuscolo le lambiscono dolcemente i fianchi, la lieve brezza della sera le titilla i capezzoli e il ventre, il cielo la guarda, terso e azzurro come un lapislazzulo, e si specchia nei suoi occhi iridescenti, il sole gioca sui suoi ciuffi biondi e negletti che le scendono sul viso in una cascata diafana ombreggiando l’incarnato delle guance, i passeri concertano con l’arpa del vento una romantica sinfonia…Io imbraccio il fucile, appoggio lo zigomo al calcio e, l’occhio rasente il mirino, lo alzo su di lei, fino al petto florido, inquadrandolo nel mio obiettivo, pronto a sparare. Il mio dito è sul grilletto, la mia mano sinistra sostiene il fucile in modo convulso, così che la croce che s’era disegnata sul petto della donna ora vagola inquieta, danzando una diabolica ridda fra i seni sodi e candidi, alla cui sommità sono incastonati due rubini rutilanti e magnifici. Tremo.

Pur avendo assistito a vere e proprie mattanze e aver visto tanto sangue spicciare da miriadi di ferite, ora stento a ritrovare il mio sangue freddo, forse perché non ho mai ucciso una donna, e la cosa mi riesce difficile anche a causa della sua straordinaria venustà e delle sue paradisiache nudità (a spogliarla, è stato quel bastardo erotomane di Steinbrenner, che ha usato il pretesto di perquisirla per i suoi laidi intenti).

Credo di non aver mai visto una donna tanto graziosa, con occhi tanto adamantini e con una pelle tanto luminosa, quasi abbacinante, come neve che riverbera i raggi del sole…

Mi sono distratto e il fucile mi è scivolato più in basso, all’altezza dei fianchi.

So che dovrei svolgere soltanto il mio ingrato compito, ma m’è difficile alzare di nuovo il mirino, ora che incontra sul suo percorso la vegetazione rigogliosa del monte di Venere, le cosce ben tornite, il ventre ubertoso...Sono uno scellerato, non dovrei provare piacere nel compiere un dovere tanto infausto! Io la sto per ammazzare e mi soffermo sulle sue grazie! Ricordati, mi dico, che tra non molto cadrà esanime nell’a-vello che lei stessa si è scavata con fatica, obbedendo agli ordini del tenente con celerità per timore della pistola che lui le puntava al capo, malgrado sapesse già con certezza che il treno della sua vita era ormai giunto al capolinea e che bisognava scendere.

Questa è la bizzarra condizione dell’uomo, che ama la vita di un amore viscerale, soprattutto quando se la vede sfuggire di mano, e scenderebbe a patti con Mefistofele pur di conservarla un solo istante di più, pur sapendo dalla nascita che la morte è inevitabile. Conatus sese conservandi, mi inducono a pensare le mie reminiscenze filosofiche…

Torno ad alzare il fucile con più decisione; miro alla fronte. Basterà un colpo solo, lei non proverà dolore, nel caso in cui quegli stronzi dei miei camerati puntassero al ventre, bramosi di bucarle le frattaglie. Tutto a un tratto, però, mi viene voglia di rivedere quegli occhi luminosi per l’ultima volta prima che si spengano. Abbasso di poco l’obiettivo e li osservo, così belli, bucolici, sinceri e vividi come un campo di grano ammantato da una messe dorata, come una vetta innevata o un pascolo verde smeraldo. Soltanto un’ombra infida li obnubila, l’ombra dell’attesa angosciosa della morte, che ormai ha spento l’ultimo barlume della speranza, di cui non resta che qualche tenue sfumatura…

Il tenente non ha ancora dato l’ordine di sparare, eppure ho la sensazione che sia trascorsa un’eternità da quando ho imbracciato il fucile per svolgere la mia mansione.

Alzo il viso dal calcio dell’arma e guardo verso i miei compagni del plotone di esecuzione.

Loro sono lì, immobili, lo schioppo puntato su di lei, in attesa che si disponga la morte della sventurata.

Mi ricredo sul tempo trascorso. Sarà stata una mia impressione; quando si freme nell’attesa, si sa, il tempo si dilata quasi annullandosi e svanendo nel mistero dell’eternità, della quiescenza del divenire, del presente senza passato e senza futuro.

Il mio mirino torna a fissare la sua fronte e di nuovo i suoi occhi. Poi la sua bocca, rosa in boccio rorida di profumata rugiada, che, forse un miraggio, si dischiude in una parvenza di sorriso. M’illudo che esso sia rivolto a me e cerco i suoi occhi eterei a caccia di uno sguardo. Sì, sono sicuro, i suoi occhi sono rivolti a me, al mio viso adombrato dall’uggia del fucile! Mi riscopro madido di sudore. Suvvia, dico tra me e me, dai questo cazzo di ordine, stupido tenente! Forse la finirò di farneticare quando i suoi occhi saranno vacui e il suo corpo irrigidito dal rigor mortis e defraudato della sua bellezza.. Ma davvero vuoi la sua morte? Mi rimprovero. Mi difendo: non è colpa tua se questi fottuti dei tuoi compatrioti la considerano loro nemica personale e la vogliono morta, tu devi solo obbedire, se non vuoi tornare nella compagnia di disciplina, o peggio, se non vuoi essere fucilato a tua volta… Discorsi inutili, quegli occhi mi hanno soggiogato, quel sorriso mi ha ammaliato. Sono come un navigante in balìa delle sirene, tra poco un gorgo inghiottirà la mia nave, oppure un uragano la scaglierà lontano. Fisso per l’ennesima volta quegli occhi conturbanti, ora perfino compiacenti, maliziosi. Sono suo! Vorrei alzarmi e abbracciarla, baciarla, specchiare le mie pupille nelle sue, vorrei vederla radiosa e lontana dal pericolo tra le mie braccia, in una accogliente alcova, lungi da occhi indiscreti. Vorrei prenderla come fa ora il vento, con delicatezza e fermezza… So benissimo, però, malgrado la mia follia, che la distanza fra me e lei è insuperabile, che c’è una barriera che ci impedisce di unirci in un caloroso amplesso, la barriera della guerra e del diverso ruolo che essa ci ha assegnato e imposto: carne da cannone entrambi,  ma assoldati sotto bandiere contrapposte. Io militare della Wehrmacht, lei partigiana, entrambi prigionieri degli eventi.

La distanza tra me e te, mia cara, è come un fiume inguadabile; chiunque di noi due tentasse di attraversarlo sarebbe rapito dalle correnti ineluttabili, arcigne nemiche della nostra unione, e sarebbe piombato nelle spire della morte.

Oh, Venere, ci siamo incontrati nelle circostanze sbagliate. Forse in tempo di pace avrei potuto baciare con voluttà la fronte in cui tra non molto si conficcherà la palla del mio fucile e tu avresti ricambiato con gioia i miei baci disarmati…

Ma ora basta.

Rifuggo il suo sguardo e torno a mirare alla fronte.

“Fuoco”.

Cadde riversa nella sua fossa.