Terza edizione 2005 • segnalato prima categoria

L'esploratore

Giorgia Cappelletti

IL RACCONTO

Apro la gabbietta e faccio un passo indietro per permettere al canarino di volar via. Quello non si muove, resta lì impalato sul trespolo, con la testina stupidamente piegata di lato. “Avanti, su” lo incito. Niente da fare. Il passerotto che avevo da piccolo, Fulmine, sarebbe schizzato via proprio come suggeriva il suo nome; ma lui, prima di impigliarsi nelle reti di mio nonno, era abituato alla libertà, mentre questo canarino nato in gabbia, evidentemente, della libertà non sa proprio che farsene. Lo lascio lì, sul suo trespolo, a fissare lo sportellino aperto e mi affaccio al davanzale, cercando di sostituire al cemento che vedo un piccolo prato che sconfina nel bosco, e più in là il sentiero che porta in paese…

Un improvviso fruscio interrompe i miei pensieri: per chi è nato in montagna, questo rumore quasi impercettibile risuona più di un complesso di trombe. Il canarino, finalmente deciso, passa accanto al mio orecchio e prende quota, ancora maldestro e inesperto, come i piccoli appena usciti dal nido, vola a scatti irregolari fino all’alto muro che da anni, per me, costituisce il simbolo della prigionia. Ricordo che il giorno che arrivai qui per prima cosa mi affacciai alla finestra, e quando vidi che la visuale era limitata dal muro mi sentii quasi male dal desiderio di vedere, al suo posto, una catena di montagne. Per ironia della sorte il canarino si posa proprio sul muro. Poi volta la testina verso di me come a chiedermi “che fai, vieni?”.

“Presto” dico a alta voce. “Presto potrò uscire…”.

Quand’ero bambino, il gioco più gettonato era quello degli esploratori. Si partiva con del pane e una torcia, regolarmente inutile perché prima del buio dovevamo rincasare, e si esploravano i boschi, le piccole grotte naturali. Una volta Marcello, una specie di capo carismatico che era stato bocciato più d’una volta e ci superava in altezza di un buon palmo, ci aveva ordinato di andare a cercare qualcosa di raro,di originale, che dimostrasse che eravamo arrivati lontano. Era sottinteso che chi non avesse portato niente le avrebbe prese di santa ragione. Io e il mio amico Giacomo avevamo vagato a lungo, oltre i soliti boschi, finchè gli alberi avevano cominciato a lasciar posto ai rododendri e agli arbusti bassi. “Torniamo indietro, stiamo salendo troppo in alto” aveva detto Giacomo, ma io volevo assolutamente arrivare sulla cima. “Possiamo portare un fiore di rododendro a Marcello. Basterà” aveva insistito lui, ma io ero talmente testardo che avevamo finito per litigare. Giacomo era tornato indietro, io avevo proseguito, inerpicandomi per un sentiero roccioso e friabile in forte salita. Dopo un po’ mi ero trovato a camminare nella nebbia. Sono sicuro che qualunque altro bambino si sarebbe spaventato a morte e sarebbe tornato a casa; ma già allora una forza irresistibile mi spingeva a cercare il “di là”, “l’oltre”. Ero certo che sulla cima della montagna dovessero esserci cose stupende, incredibili. Ovviamente non era mai arrivato sulla cima, se pure ne esisteva una; quando, stremato, mi ero seduto su una roccia, avevo aspettato per ore e ore finchè non mi avevano trovato. A quei tempi non c’erano telefoni cellulari e mio padre, non vedendomi rientrare all’ora solita, era andato difilato a casa di Giacomo e poi aveva organizzato, insieme ad altri volontari, una squadra di ricerca. Ero stato ben contento di essermi fermato in tempo, quando la nebbia si era alzata e avevo visto i crepacci profondi vicino a cui avevo camminato, ignaro.

Scuoto la testa per cancellare queste immagini e torno al presente. Il canarino è sempre lì, fermo sul muro, come se non sapesse decidersi. Gli manca quell’anelito alla libertà, quella tensione a superare i confini, che mi ha sempre dominato fino a mettermi nei guai. Quando mia madre andava a scuola alle udienze, io smaniavo girando in tondo per la cucina finchè il caldo della stufa mi faceva lacrimare gli occhi. A quel punto non resistevo più: via, fuori, nella neve che sembrava azzurra nella scarsa luce del tardo pomeriggio – il sole, d’inverno, tramontava presto - , respirando a pieni polmoni l’aria fredda e pungente, odorosa di resina e linfa di pino. Riempivo le mangiatoie per gli uccellini, versavo nell’abbeveratoio un po’ d’acqua con una goccia d’alcool perché non gelasse. Sul grande abete bianco davanti alla finestra della mia camera avevo inchiodato una bella casetta per uccelli. Me l’aveva costruita mio padre con una cassetta per la frutta. E in questi momenti di fuga era bello osservare la famiglia di chiurli che vi si era stabilita. Poi andavo a cercare impronte sulla neve fresca: quelle lunghe e strette della lepre, quelle leggerissime degli uccelli e a volte anche impronte di caprioli o di volpi.

Quando faceva buio sul serio, però, dovevo rincasare. Mia madre era già tornata e non mi parlava, non mi guardava neppure finchè non ci sedevamo tutti a tavola. Io, timoroso, non alzavo lo sguardo dal mio piatto. Il resoconto era sempre lo stesso: il ragazzo è troppo fantasioso, nei compiti va fuori tema, passa il tempo a sognare a occhi aperti.

Nei giorni seguenti dovevo stare chiuso in casa a studiare, e questa era una punizione tremenda. Seduto nella mia cameretta, sentivo le pareti stringersi intorno a me, soffocandomi. Dopo pochi giorni scappavo dalla finestra e correvo via, nei boschi e nei campi, verso nuove avventure.

Quando cominciai le medie, dovetti trasferirmi in città, a pensione da una vecchia signora che mi ospitava gratis. Diceva che le bastava avere un po’ di vita in casa. Io le raccontavo dei boschi, dei sentieri e degli animali, delle mie esplorazioni e delle mie scoperte. Lei invece mi parlava del mare; ci andava tutte le estati per respirare lo iodio e le piaceva tanto. Quell’estate mi portò con sé e imparai a nuotare e a pescare, ma continuavo a preferire la montagna.

Il canarino è volato via. Il cielo si sta rannuvolando, scommetto che ci sarà un temporale di quelli grossi: quelle nuvole bianco accecante bordate di nero non promettono niente di buono. C’era il temporale anche la notte che sono scappato. Avevo tredici anni e ne avevo abbastanza di questa città. Cominciavo a provare il solito senso di soffocamento. Così un giorno presi tutti i miei risparmi per andarmene, però mi accorsi che non bastavano neanche per un biglietto del treno, e allora l’indomani a scuola mi infilai nella sala professori e arraffai qualcosa dalla borsa della mia professoressa di italiano. Poi andai in stazione e presi il primo treno per una città sconosciuta. Mi fermarono al confine con l’Austria e mi riportarono dalla signora Maffei. La professoressa di italiano era una donna in gamba. Non aprì bocca con la polizia, ma il giorno dopo a scuola mi chiamò in sala professori e disse che avrei lavorato in biblioteca – riattaccando etichette, scrivendo riassunti, mettendo in ordine i libri – per un mese, per estinguere il mio debito. Io le chiesi scusa e lei mi mise un braccio intorno alle spalle e mi disse: “Sono stata un’esploratrice anch’io”. Mi piacque moltissimo il suono di quella parola. Mi raccontò che a diciotto anni era partita per l’India come missionaria e ci era rimasta per tre anni.

E nella mia mente si radicò l’idea “Io sono un esploratore”.

Cinque anni dopo cominciai la mia vita da vagabondo senza radici.

Ho ancora un anno, un solo anno da scontare in questo posto. Il senso di soffocamento è stato così tremendo e continuo, all’inizio, che ho pensato di impazzire. Poi mi ci sono abituato. Comunque penso che tornerò a casa. Al paese, voglio dire. I miei se ne sono andati da tanti anni, ma mi hanno lasciato qualcosa, e potrò riscattare la nostra vec-chia casa accanto all’abete bianco. Chissà com’è cresciuto. O forse qualcuno l’ha tagliato ed rimasto solo un enorme ceppo con tanti di quei cerchi che non si finisce più di contarli.

Sarà bello rivedere i compagni di un tempo. Ho sentito che Giacomo si è sposato e ha tre figli. All’inizio, quando mi sono trasferito in città, ci scrivevamo spesso, ma col passare degli anni le lettere sono diventate sempre più rare, finchè sono cessate del tutto. Ormai le nostre vite erano troppo diverse.

È stata la mia anima di esploratore a cacciarmi nei guai? Non lo so, ma sento di aver imparato una lezione preziosa dai miei vagabondaggi: l’uomo è sempre l’uomo, e le cose vanno sempre allo stesso modo, in qualunque parte del mondo ti trovi. E’ inutile partire in cerca di qualcosa “di più”: i viaggi migliori sono quelli che facciamo con la fantasia, come faceva un tempo un bambino con la testa piena di sogni, in un paesino di montagna. Ora so che i limiti e le frontiere, come questo muro, sono solo apparenti; basta sognare per mandarli in frantumi, come solo i bambini sanno fare. Nessuno potrà mai impedirvi di viaggiare con la mente, e col cuore.