La nona edizione 2017 • segnalato sezione inediti

Ai confini del nulla

Camilla Bernardi

CAMILLA Bernardi

Camilla Bernardi è nata a Trento nel 1985. È laureata in Scienze filosofiche e ha vissuto in Inghilterra, California e Vietnam. Oggi abita a Bressanone, in Alto Adige, dove si occupa di design grafico e design dell’informazione.

IL RACCONTO

Viaggio ai limiti geografici e morali dell’idea di Europa.
Reportage narrativo

Al Brennero, il sole sorge tardi e tramonta presto. Si infila in una gola larga appena duecento metri e attraversa quell’angusta cerniera di cielo così veloce da non trovare il tempo di scaldare i tetti, gli umori, le parole. Della storia centenaria di questo valico alpino è rimasto appena un cippo di pietra che recita Fin qui, madre Roma, si sente la tua voce e una sala comunale dove fanno bella mostra fotografie sbiadite della costruzione della ferrovia, di ameni paesaggi montani e di Hitler avvolto in un cappotto dal bavero alto che stringe la mano a Mussolini. Il primo dei duemila cittadini di questo paese di confine è uno sceriffo borioso dal pizzetto ossigenato, che ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità sulla cronaca internazionale tra l’aprile e il maggio del 2016, quando il governo austriaco minacciò di chiudere la frontiera schierando l’esercito e bloccando gli ingressi irregolari con una reta metallica. Ha trovato la sua personale gallina dalle uova d’oro nel centro commerciale a ridosso della confine, diecimila metri quadri di vetrine scintillanti e ristoranti tematici dove sconti succulenti illudono i visitatori di non poter rinunciare all’ennesimo paio di scarpe da corsa.
Al Brennero, l’unico bar aperto alle otto di mattina di questo pigro giovedì d’inizio giugno è avvolto da un alone squallido e inospitale. Lampadari di cristallo pacchiani pendono dalle travi del soffitto per illuminare uno stanzone altrimenti oscurato da pesanti tendaggi color vermiglio. Nel frigorifero che ronza solitario, illuminato da un fastidioso neon blu, stanno allineati succhi di frutta, bottigliette d’acqua e analcolici amari divisi per colore, da sorseggiare accompagnati agli arachidi secchi distribuiti sul bancone. Le pareti sono tappezzate da cartelli gialli che dettano ordini sottolineati da solenni punti esclamativi: vietato l’ingresso ai minori di 18 anni, vietato attaccare i cellulari alla corrente, vietato spegnere le slot-machine. La cameriera non serve ai tavoli e prepara svogliata le colazioni, indossando una maglietta che ben riassume l’umore con cui svolge la sua mansione: black is my happy color, il nero è il mio colore felice.
Al Brennero, da questa tugurio scortese senza calore, inizia il mio viaggio: sei giorni sulla strada, 2.200 chilometri percorsi, sette frontiere attraversate, un passaporto esibito 18 volte, che ho richiesto al commissariato di polizia di Bressanone e ricevuto in meno di due settimane dalle mani di un ufficiale cortese, mentre allo sportello a fianco, quello dedicato ai permessi di soggiorno degli Ausländer, gli stranieri, una donna severa scandiva più volte la frase: Ma Lei che lingua parla? È un viaggio a ritroso, attraverso le montagne dell’Austria, passando per il verde della Slovenia, così sfacciato dopo tre giorni di pioggia, e la nuova opulenza della Croazia, per finire ancora più giù, nella Serbia rurale, in un susseguirsi afoso di intonaci scrostati, covoni di fieno e schiene bruciate dal sole, fino a raggiungere il cuore di tenebra della promessa europea di pace perpetua, giustizia e solidarietà. Un cuore di tenebra che ha un nome tagliente e aspro di disillusione: Šid.

Šid è un’anonima cittadina serba, otto chilometri a sud-est del confine croato. È un far west desolato, una fornace di villette a schiera e tapparelle abbassate che vomita arsura. I pochi volti che sfidano il mezzogiorno sono bianchi e indossano uniformi blu coperte di polvere. I quattordicimila abitanti di questo buco infernale hanno preteso e ottenuto lo smantellamento del campo di accoglienza che sorgeva nei pressi della stazione. Mille migranti che avrebbero dovuto essere trasferiti nelle altre strutture ufficiali gestite dallo stato vagano come spettri nella calura o sonnecchiano all’ombra degli alberi nel parco. È il ramadan, non si mangia né beve fino allo scendere della notte. L’erba è coperta da rifiuti, bottiglie e borse di plastica. Nel fossato a lato della strada, scarpe spaiate, pantaloni laceri e camicie lerce avvizziscono al sole.
Un ragazzo avanza veloce, senza alzare lo sguardo. Nonostante il caldo, indossa pantaloni lunghi e una maglia celeste che gli copre le braccia fino ai polsi. Where are you going?, chiedo, Dove stai andando? Si volta di scatto, getta un paio di occhiate guardinghe verso sinistra, decide di avvicinarsi. Sta cercando un posto dove caricare la batteria del cellulare, mi dice. In questa distesa deserta, anche offrire una presa di corrente è diventato un affare lucrativo: caricare un cellulare per ingannare le interminabili ore della giornata o chiedere alla famiglia di trasferire i soldi per le piccole spese e l’eventuale traversata costa qualche dollaro.
Nei minuti successivi scopro che il ragazzo si chiama Abdullah, ha 19 anni e viene dal Pakistan. Ha grandi occhi scuri e capelli che gli coprono la fronte, pettinati in una frangia ordinata verso destra. Ha attraversato Iran, Turchia e Bulgaria pagando tremila dollari a un trafficante, nel tentativo di raggiungere il fratello che vive in Francia. Ne servono altri quattromila per arrivare in Austria. A Šid è arrivato un anno fa, prima come ospite del campo e ora come ombra che lotta per la sopravvivenza in questa terra di nessuno. Non ha documenti né permessi, vive al di fuori di ogni riconoscimento legale. Fifty games, ripete con insistenza, mostrando una mano aperta. Cinquanta tentativi di attraversare la frontiera.
Quando la rotta balcanica, il corridoio della droga trasformatosi in via di transito per migliaia di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla miseria, era aperta, bastavano tre giorni per percorrere il tragitto dalla Serbia all’Austria o alla Germania. I migranti trovavano ad attenderli pullman e treni messi a disposizione dagli stessi stati che facilitavano il passaggio verso nord-ovest. Con la chiusura dei confini serbi, macedoni e croati nel marzo del 2015, i giorni sono diventati settimane di cammino, mesi di campo, anni di limbo costellati da umiliazioni e speranze deluse. Ogni trafficante detta regole diverse per superare gli ostacoli. Nella maggioranza dei casi, i migranti depositano i soldi presso un’agenzia e comunicano il codice per riscuoterli solamente a passaggio avvenuto. Nella trattativa corrono però il rischio di venire sequestrati fino al versamento di un riscatto. C’è anche chi ha pagato il trafficante convinto di aver attraversato il confine ma ha poi scoperto di essere stato scaricato in un bosco ancora troppo al di qua della libertà.
Attorno a noi si raduna un folto manipolo di ragazzi che seguono la conversazione con sguardi timidi e braccia conserte. I più giovani indossano magliette smanicate, hanno il viso segnato dall’acne e fumano taciturni. Do you wanna see where we live?, Vuoi vedere dove abitiamo? Do you wanna see the jungle?, Vuoi vedere la giungla? Abdullah incalza e io acconsento a seguirlo. Entriamo in stazione come uno sciame ordinato e iniziamo a camminare lungo i binari, aggirando le fiat punto arrugginite della polizia allineate sulla strada principale. Avanzo un passo alla volta sulle traversine, cercando di non perdere l’equilibrio. Ogni rumore mi fa voltare la testa per assicurarmi che i treni rossi e blu se ne stiano ancora allineati in lontananza. Nel chilometro di strada che percorriamo fianco a fianco, il gruppo diventa sempre più numeroso e quando svoltiamo a destra infilandoci nella boscaglia, alcuni ci precedono per scansare i fitti rami degli arbusti e farci passare più agevolmente.
This is my home, questa è casa mia, sorride Abdullah, indicando un sacco a pelo disteso al centro di una radura. In un violenta retata notturna, la polizia ha distrutto la tenda in cui dormiva e le stoviglie coi viveri conservati per la fine del ramadan. Per terra ci sono cocci di vetro e chicchi di riso, mescolati in una mistura inutilizzabile. Abdullah mostra i segni delle manganellate ricevute: ha un livido sotto l’occhio sinistro e un taglio sulla testa, nascosto dai folti capelli neri. Sul confine tra la Serbia e la Croazia sono schierati seimila soldati, che perlustrano strade, boschi e fiumi con cani, droni, rilevatori termici e di battito cardiaco. Le organizzazioni non governative denunciano le continue violenze che avvengono nella terra di mezzo ma le autorità voltano lo sguardo e si trincerano dietro l’impunità.
Fatico a rispondere, la gola arsa dalla vergogna e dalla camminata sotto il sole. Qui l’acqua manca, va centellinata con parsimonia. Un casale sorge nella lontananza sfocata, oltre le spighe di grano. Quando siamo fortunati, spiega Abdullah, un contadino ci lascia riempire d’acqua una tanica da cinque litri. Insiste per mostrarmi the showers, le docce. Sotto ai binari del treno, passa un rivolo d’acqua che stagna formando una pozzanghera larga appena due metri. È qui che, tra libellule e fango, i ragazzi cercano riparo dalla canicola. I panni asciugano in poche ore, appesi ai rami delle betulle. Emad ha la pelle bianca, grandi occhi azzurri e un sorriso che s’apre su una fila perfetta di denti piatti. Mi fa da cicerone in questo girone morboso, allungando la mano per farmi scendere vicino all’acqua e attraversare il fango senza scivolare. Non parla inglese ma ciò non toglie la voce alla sua voglia di raccontare cosa sta succedendo. Sussurra parole inintelligibili, alternandole a mugugni più sonori che sembrano sottolineare i gesti e cercare la mia comprensione. Le mani indicano l’acqua verdognola, si avvicinano al corpo con i palmi a scodella e scendono su viso e petto, mimando l’azione. Mentre lo osservo, mi stupisce la varietà di tratti somatici che mi circonda, un alternarsi armonioso di forme e colori sconosciuti, così lontani dall’ingenuo immaginario che mi è proprio: volti sbarbati, occhi verdi spalancati, profili spigolosi.
Sotto l’ombra di un noce incontro Navid. Navid di anni ne ha trentacinque. Anche lui ha lasciato il Pakistan affidandosi ai trafficanti ed è bloccato in Serbia da un anno e mezzo. Ha un fratello in Gran Bretagna, un altro in Corea. Ha perso la forza e la speranza di riuscire ad attraversare il confine, vuole solo tornare alla sua rivendita di autoricambi. Anche ripartire si trasforma in un’odissea burocratica, dove si fatica a trovare i soldi per un biglietto e ottenere un permesso ufficiale di rimpatrio. Navid fa scorrere le dita sul cellulare e racconta di gite in montagna, carne di pecora alla griglia e grandi stanze vuote che profumano di casa. Sono istantanee di una vita altra. Guardo il ragazzo sullo schermo: ha muscoli evidenti, una pancia pingue segnata dalla polo a collo alto. Chi mi sta di fronte ha la pelle bruciata dal sole, attraversata dalle rughe e segnata dalla fame. Mi guarda dritto negli occhi e dice Are they going to open the border?, Apriranno la frontiera? Trovo il coraggio di sostenere quello sguardo fluido e rispondo Not any time soon, Non a breve.
Abdullah riappare dai cespugli con una borsa di plastica blu e una coca cola fresca, appena comprata. Guardo la lattina e la tanica d’acqua vuota qualche metro più in là, bevendo a sorsi amari questa ospitalità che non conosce miseria. In cambio non accettano nulla, né i dinari che ho scordato di cambiare, né le bottiglie d’acqua che ho lasciato nel furgone. Tell them to open the borders, Dì loro di aprire i confini. È l’unica richiesta, la sola, timida preghiera che mi riporta alla cruda tragedia umana che mi circonda. Continuo a scansare le mosche che si posano su ogni centimetro di pelle scoperta. In questo mercato a cielo aperto di carne umana, la dignità è l’unica cosa che non si vende a peso. Lasciamo la giungla per tornare alla stazione. Abdullah ha il capo chino, si passa la mano sul collo e accompagna ogni passo a una cantilena mesta, carica di aspettative.
See you, Inshallah, in Italy.
Ci vediamo, se Dio lo vuole, in Italia.