La nona edizione 2017 • segnalato sezione inediti

Sentimento dei barbari

Nicholas Pasqualini

Nicholas Pasqualini

Sono nato a Rovereto (TN) il 15 maggio 1993. Attualmente frequento il sesto anno di medicina presso l’Università di Padova. Tra ciò che mi piace molto ci sono la musica, l’aria aperta, lo studio della psiche.

Provo un particolare trasporto sia verso l’Estremo Oriente che per il Grande Nord. Mi appassiona la letteratura in diverse sue forme.

IL RACCONTO

«Ah, Hikmet! Non mefistofelico come Dragut» - l’oratore (un marinaio?) si tocca i testicoli - «Certo. Ma si dice qualcosa di lui. O almeno lo dicono i pisani che lo dicono i genovesi che lo dicono i veneziani che lo dicono i saracini. Pare essere un capo-corsaro normalmente selvaggio e normalmente pagano, ma che comunque spicca nella marmaglia. Metà feroce metà affabile, così lo descrivono. Uno studiato, secondo alcuni. Uno di penna quanto di spada, addirittura.
Bah! Il mare aperto puzza meno di questo porto, è vero. Probabilmente quell’isola che infestano riesce anche a profumare qualche volta, fra gli odori dei pesci, della salsedine ed il tanfo dei loro cenci. Resta che il mare non è luogo per i colti, secondo me. Un pirata, poi!
Ma, dicono, la sua bandiera è comunque infausta. Certo, la bandiera di Dragut» - l’oratore si tocca i testicoli - «fa fuggire le genti fin sull’Appennino. Ma nemmeno Hikmet [si chiama Nazim, chi parla non lo sa, o forse ora non lo rammenta] è un bell’ospite. Sotto baffi ben curati ringhia come tutti gli altri, sgozza con riguardo, ma sempre acciaio usa».
La discussione va avanti, oppure si disperde. In entrambi i casi, la sera matura nel porto di Piombino: la quiete si fa d’ombre, il giorno è di nuovo morto, ha già smesso di sanguinare.

È proprio ora che la mia ricerca entra nel vivo. Dove sarà il protagonista? Qui la scena è ancora indistinta, la trama è fumosa. Dev’essere ancora distante.

«Hikmet? La sua banda di turchi è stata vista più volte nei pressi dell’isola di Montecristo. Oh, sono acque pestilenziali. L’isola dev’essere splendida e pare che ad incontrare quel barbaro ci si guadagni una piacevole chiacchierata. Il prezzo, se va bene, è la barca, o un occhio. Se va male, credo tu te lo possa immaginare, o forse no». Fatico a distinguere il volto di chi parla. La voce è di donna, probabilmente una serva d’osteria – che altro può fare una donna al porto di Piombino, esclusa la prostituta? Ma di questi tempi, le prostitute non indugiano in conversazione: il mar Tirreno è molto torbido, il Principato è debole. Meglio fare in fretta quel che c’è da fare e poi scappare via; sempre più clienti hanno il coltello invece del denaro.
La rotta per Montecristo è anche facile: da Piombino all’Isola d’Elba, poi Pianosa, e da lì dipende dalla sorte, arrivare oppure no. Si può anche passare per l’isola del Giglio, col permesso del diavolo.
«Aspetta!» dice la stessa voce di prima, «Non esagero. È davvero una rotta pericolosa. Ci vuole il giusto fegato per navigarla. Chi sei tu per farlo?»
Già, con chi sta parlando? Forse con me? O è qualcun altro, un passante, un cliente, il marito? Le immagini hanno il colore della lontananza, lattescenza, come di perle sporche.

Porto di Piombino, Isola d’Elba, si sfiora Pianosa e da lì la sorte prende per mano chi vuole portare a Montecristo. Quelli più fortunati la troveranno deserta e riusciranno pure a tornare indietro.
Invece ora l’isola non è deserta.
C’è una donna che dice «Nazim».
C’è una donna con enormi occhi scuri, un viso ovale e tenui lentiggini, un corpo minuto e la pelle scottata, che dice «Nazim». La matassa dei suoi capelli neri è una lotta fra corvi.
C’è un uomo che la ascolta, sotto un oleandro. Le foglie d’oleandro sono velenose: siede all’ombra del veleno. I suoi vestiti sono azzurri. Azzurri, in assoluto i più costosi! C’è chi lavorando tutta la vita non potrebbe permettersi un fazzoletto azzurro. Quell’uomo, quest’uomo ha tutti gli abiti così tinti, tranne una fascia amaranto sull’addome, un copricapo amaranto, amaranto le sue spesse labbra, ispida la barba. Però la sua veste è scucita in più punti; sotto si vede il corpo, la polpa di questo trasandato frutto.
«Nazim, le armi, la tua pistola. La polvere da sparo, Nazim Hikmet»
«Vai da sola, andate da soli», dice lui.
La donna sussulta. Montecristo, l’isola stessa, ascolta attentamente. Gli olivi tendono le verdi orecchie coriacee, i cipollacci selvatici trattengono il loro respiro sommerso.
Quegli occhi enormi si alzano a fronteggiare lo sguardo del corsaro, lentissimamente, quasi fossero intorpiditi dall’afa. Enormi, neri, infossati, come i pozzi in cui la notte si nasconde per fuggire dal giorno.
Ora la donna si opporrà alla scelta di Hikmet.
«Va bene», dice, invece.
Ah.
Il corsaro spiega dunque dove sono le mappe e gli strumenti di navigazione. La donna ha già preso tutto in realtà, ma dà al suo capitano la soddisfazione di essere ascoltato.
Ma non risponde.
Hikmet la fissa, ma non risponde.
Allora il corsaro guarda la boscaglia e cerca il panno del mare, attraverso i fori nella macchia mediterranea.
La scena per un istante si interrompe. Hikmet si ritrova solo, in un luogo quasi completamente bianco, svuotato. L’unica cosa che è rimasta sono le sue due orme sulla terra e lo sciabordio dell’acqua. Respira con maltenuto affanno.
La storia si sta per rompere! No, non cedere! Ferma la luce del presente, Nazim, o corromperà la bruma dei sogni! Ancora qualche minuto, ancora per qualche minuto, fammi finire di raccontarla.
Il corsaro alza il capo e chiude gli occhi. Sul bianco cala il nero. Quando li riapre, ha fatto ritorno sull’isola.
«Nazim, le armi, la tua pistola. La polvere da sparo, Nazim Hikmet»
«Vai da sola, andate da soli»
«No, Nazim. Sei il nostro capitano. E solo tu sai leggere le carte e usare gli strumenti»
«Ekrem sa pure usare il sestante, e meglio di me»
«Nazim, smettila di fare l’idiota. Gli uomini ti aspettano». Sono nella cala più grande a nord, stanno armando la nave.
«No. Non posso davvero allontanarmi ora, Merve» - oh, giusto, così si chiama. Merve. Merve la corsara, quartiermastro della ciurma.
Hikmet vorrebbe anche dirle perché non può lasciare l’isola. Eppure, quante volte lo ha visto imbrattare fogli su fogli, alla luce di candele stremate? Tutti quei segni, quelle parole che non le sono mai interessate. Saprebbe pure leggere, ed anche egregiamente.
Ma cosa può dirle dunque di sé, che lei possa capire?
Merve conosce il verso dei pesci. Non lo condividerebbe con nessuno, è il suo segreto più intimo. Glielo hanno rivelato gli abissi marini: dev’essere la figlia prediletta del Mediterraneo. Così gli disse una volta Gokan, quasi un vecchio, un anno come mozzo, due come pirata semplice, venti come cannoniere.
«Capitano, l’ho vista. Quella ragazza è uno spirito del mare. Tutte le onde s’arricciano quando passa lei, in segno di saluto». Gokan è piuttosto suonato, ma Hikmet è contento di averlo arruolato qualche anno prima, in quella bettola di Algeri: prepara una polvere pirica talmente esplosiva da sembrare briciole di sole. Forse perché la mescola con la propria follia.
Una parte del corsaro tuttavia crede al cannoniere pazzo: lei così inafferrabile, così piatta, uniforme, eppure così mossa. Sembra non avere sentimenti, né particolari voglie: ma quegli occhi enormi scrutano dentro agli uomini fino alle ossa, e così parla rivolgendosi direttamente alla loro anima. Come può dunque non essere il mare, lei?
Così pensa Hikmet. Ed il mare è forse inconciliabile con lui: l’acqua è trasparente, l’inchiostro è nero. Il Mediterraneo fa milioni di volte una nota sola, gli uccelli suonano chiassosamente i loro zufoli.
Sinceramente, sembra che ogni tanto Merve trovi ridicolo il suo capitano. Con quelle notti allucinate, a combattere contro leggeri titani di carta. Ma meglio non farne cenno ad Hikmet. Dicono che se s’arrabbia diventi una furia. Ekrem, il nostromo, sostiene che una volta abbia sgozzato una vecchia nella campagna di Livorno perché “l’ultima affilatura al coltello gliela dà la gola”.
Palle che Ekrem racconta per far rigare dritto i nuovi mozzi.
«Se vuoi vederlo diventare feroce come un orso, basta rovinargli la pagina di un libro» dice il cuoco Faik, che parla alle pance dei marinai oltre che alle loro orecchie; per questo li comprende tutti molto bene.
Solo Hikmet però conosce il segreto della propria violenza. In verità Akçay, il segaossa, è con lui da più tempo di tutti. Ricorderà per sempre Palermo, il sangue che tingeva la spiaggia, il mostro e lui che gli diceva: «Nazim, ora basta, ora basta», ma altro sangue ancora, ed altri fuochi. I pirati si ubriacano con cose inconfessabili.
Akçay sa che una poesia di Hikmet nasconde la memoria di quel giorno: Cocci di vetro, l’ora s’assottiglia… Inizia così, e il segaossa non trattiene un brivido dalle profondità.
Quell’uomo, quest’uomo pieno di parole ed acciaio è ora ammutolito davanti a Merve.
«Nazim, cos’hai?»
La frenesia d’esistere.
«Da fare», risponde.
Dovevi dire “La frenesia d’esistere”, o “l’alta marea interna”; coglione! Così pensa Hikmet.
«Su quest’isola non c’è nulla da fare, Nazim»
Non c’è nulla da fare, effettivamente. Ma non c’è sempre bisogno di fare al mondo. Ogni tanto basta fermarsi a respirare al ritmo dello sfrangersi della risacca. Se non se lo concedono loro che sono liberi, che sono pirati, chi può? I servi, i mercanti, i re hanno il loro tempo morsicato, smangiucchiato, ed orizzonti tranciati dalle mura o dalle fatiche.
Non dice nulla di tutto questo a Merve. Quella donna ha aperto la porta sulla fragilità di Hikmet, ma non ha riguardi per quel che c’è oltre.
Arriva Akçay. Ha risalito il sentiero di pietrisco fino all’accampamento alto, a metà del monte. Dal suolo risale il bollore della radiazione solare, cava dai rosmarini un po’ del loro aroma e lo disperde per l’isola. Il sentiero è zuppo di quest’odore e pure il naso del segaossa.
Akçay guarda Hikmet, attendendo disposizioni.
Hikmet guarda Akçay e il suo volto costellato di segni. I solchi sul suo sono identici: doni delle medesime battaglie e delle stesse traversate.
Il muggire delle cicale sta aumentando. Il capitano deve alzare la voce per farsi sentire chiaramente. Apre la bocca e qualcosa in lui fa: crac! E allora al diavolo! Così pensa Hikmet. Parla, grida, tuona, incendia, svegliando i furori assopiti:
«Stiamo andando a rilento coi preparativi. Dì ad Ekrem di fare una scenata ai nuovi. Fai affilare la mia scimitarra. Ma non ad un mozzo del cazzo. Dalla ad Ömer, che è piuttosto bravo. Digli comunque che secondo te non è capace. Refik ha finito di sistemare i remi, o dobbiamo cercarci un nuovo carpentiere?»
Il capitano alza l’unico angolo della bocca che è in grado di muovere: ghigna come un demone cordiale.
La conversazione prosegue, ma non sembra essere interessante.
Akçay fa dunque ritorno all’accampamento basso.
Merve guarda Hikmet con gli occhi enormi.
«Cosa ti era preso prima, Nazim?»
Credo vorrebbe dirti: “Non hai alcuna dolcezza. Minuta ragazza del mare, la tua bandiera è essere dura come il quarzo! Ho frugato sotto le armi e le tue vesti da lupo, cercando una cedevolezza, un respiro gracile. Ma ho toccato solo ferro, smusso e tagliente, malpitture, l’amarezza con cui si guarda l’orizzonte invernale”.
Credo vorrebbe dirti: “Sai, vengono giorni d’inaspettata resa. Forse lo fanno casualmente, forse segretamente maturano sulla superficie dello spirito, finché non fruttano gli acini - comunque acerbi - della disillusione”.
Credo vorrebbe dirti: “Me ne esco, sepolto nelle mie vesti di lupo e mandragola. Io, altrettanto barbaro, tuo simile, eppure così diverso. Ugualmente viandante della solitudine, sì, ma arso da qualcosa che non conosci, tu, forse già lontana”.
Credo vorrebbe dirti: “Ho gettato braci nella neve”.
Hikmet ha scritto tutto questo la notte precedente.
Diglielo.
Ma sono solo parole che franano alla rinfusa. No. Una torre pericolante, contorta, fatta di canne marce.
Diglielo.
Ma sono proprio questi pensieri, questa buccia assurda ed artificiosa, che mi tengono distante dalla realtà, da lei.
Dille semplicemente: Ho gettato braci nella neve. Dillo.
Ho gettato braci nella neve.
Braci nella neve.
Dillo!
«È stato un momento. Le ferite dell’ultima volta mi danno ancora noia. Quella pallottola nella gamba, la mattina fa ancora piuttosto male. Ma è stato un momento, andiamo alla nave»
Perché non hai detto la verità, Nazim?
Perché i pirati non conoscono da vicino la neve.
E tu, Nazim?
L’ho vista da ragazzino, in Tracia. La sogno ogni notte.