La nona edizione 2017 • segnalato sezione inediti

La cadenza imperfetta

Gianni Gandini

Gianni Gandini

Musicista, musicoterapista, autore letterario. E’ arrangiatore, compositore e si occupa di formazione musicale e musicoterapia. Collabora come docente presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Genova. Per la Fondazione Don Carlo Gnocchi  si occupa di musicoterapia e terapia vibroacustica in Rsa e nei centri diurni ed è tra i responsabili del Festival del Cinema Nuovo di Gorgonzola, festival internazionale dedicato alla disabilità. In campo letterario ha pubblicato romanzi, narrativa infanzia e ha vinto numerosi concorsi letterari. Scrive testi per teatro, cabaret e sceneggiature. Nei suoi progetti discografici e cinematografici, hanno partecipato attori, comici e musicisti conosciuti al grande pubblico

IL RACCONTO

«Quanto tempo, professore?»
«Gli ultimi controlli non sono andati come avevo sperato.»
«Quanto?» dico alzando leggermente la voce.
Il professor Giorgi abbassa lo sguardo e richiude la cartelletta sulla scrivania.
«Un mese, forse due.»
Chiudo gli occhi e ascolto il battito del mio cuore accelerare paurosamente. Non pensavo rimanesse così poco tempo. Esco dalla sala e raggiungo Manuel e Sara nell’atrio. La piccola si getta tra le mie braccia, felice.
«Andiamo sulle altalene del parco?»
«Non ora», dico incrociando lo sguardo preoccupato di mio marito. «Devo tornare al lavoro. Ci vediamo stasera.»

Quando si affrontano le prime battute della partitura, nessun particolare pensiero attraversa la nostra mente, ma senza rendercene conto abbiamo già cominciato il nostro faticoso percorso.
Nel brano che stiamo cercando di far nostro, non dobbiamo dimenticare che anche in una fase di prima lettura, tutto ciò che memorizziamo, note, posizioni, sincronizzazioni, non deve avvenire in modo superficiale. È uno degli errori più frequenti. La nostra mente comincia a immagazzinare e sistemare da subito quello che suoniamo, ed eventuali correzioni future ci costeranno fatica in più.

Una linea melodica appare in solitudine tra le prime battute della partitura, lenta e decisa nel suo incedere. Sa di essere al centro dell’attenzione, ma non lo sarà per molto.
Questo tema iniziale e solitario sarà circondato, seguito, rincorso da altre voci, in un gioco d’imitazione continua, all’interno della fuga, particolare tecnica compositiva che, a torto, è considerata una forma o un genere musicale.
Sara è nel suo lettino e mi ascolta attenta mentre suono.
«Mamma, dove si nascondono le note che escono dal pianoforte?»
Sara ha una predisposizione particolare per la musica. Non riguarda solamente la parte puramente tecnica, dove impara e memorizza, con le sue manine, le posizioni dei tasti, ma anche la percezione dei vari elementi che compongono la parte armonica.
«Quante voci sto suonando?»
«Due», mi risponde immediatamente.
«E ora?»
«Quattro.»
«Sei molto brava, cucciola.»
Nella fuga che sto affrontando mi fermo diverse volte, incespicando in alcuni passaggi. Non riesco a concentrarmi.
«Perché sbagli tanto?»
«È un brano difficile e lo sto imparando», dico prendendo un profondo respiro e tornando sui tasti. «Adesso ricomincio da capo, cercando di fare meno errori.»
In una delle battute centrali, un fraseggio mi costringe a cercare una diteggiatura adeguata, ma non sono convinta della soluzione trovata. Decido di sospendere l’esecuzione e mi avvicino alla piccola.
«Mamma, hai gli occhi stanchi, con il nero intorno.»
«È vero, quando sono stanca divento brutta.»
Sara mi prende il viso tra le sue piccole mani.
«Tu sei la mamma più bella del mondo.»
«Se mi dici così mi sciolgo.»
«Non puoi scioglierti, mamma, non sei un gelato.»
Sorrido dandole un leggero bacio.
«Buonanotte piccola mia.»
Raggiungo mio marito in cucina e mi siedo esausta, senza più energie. Nessuno dei due ha voglia di parlare.

Occorre conoscere molto bene la partitura scelta, ciò che andiamo ad affrontare, i possibili rischi, il grado di difficoltà tecnica, per avere la certezza di farcela, di essere in grado di eseguirla correttamente per il tempo che ci è concesso.
Non possiamo escludere una dose di rischio, di possibile insuccesso, perché è nella nostra natura scegliere, ogni volta, un percorso che abbia gradi di difficoltà più elevati del precedente. Lo facciamo per superare i nostri limiti, migliorare l’esecuzione, capire quale traguardo possiamo raggiungere.

«La relazione tra musica e apprendimento ha portato risultati sorprendenti, ma non è corretto pensare che ci sia soltanto una completa integrazione delle informazioni ricevute. Ciò che ritengo davvero importante è la relazione e il contenuto emotivo che ne consegue.»
«In che senso, scusa?» mi chiede un collega.
«Quando suono, con il tocco che imprimo sui tasti, con le pause, gli accenti, la dinamica con cui interpreto un brano, mentre credo di far musica, in realtà sto parlando di me. E sono convinta che i bambini lo sentano, avvertono che la musica ci parla di noi, della nostra vita e che il suono ci metta in contatto con i nostri pensieri più segreti.»
L’eco della riunione di oggi non mi abbandona nemmeno tra le mura di casa. Dovrei sospendere l’attività lavorativa, ma non ci riesco.
«Mamma, cos’hai, non stai bene?»
Sara si è avvicinata e si è seduta sulle mie ginocchia.
«Oggi mamma è stanca», dico accarezzandole i sottili capelli. «Ha la testa pesante.»
«Perché è pesante? Che cosa ci hai messo dentro?»

 Se impattiamo in un passaggio particolarmente difficile della partitura, è importante non perdere la concentrazione, riprendere l’equilibrio e mantenere l’assetto giusto per affrontare quello successivo. Può capitare a chiunque di non essere precisi, ma occorre essere più forti dell’errore, non dobbiamo subirlo, non dobbiamo averne paura. Gli ostacoli fanno parte dell’esecuzione e l’unico modo per arrivare in fondo è superarli tutti.

Nonostante la stanchezza e la mancanza di energia, le dita paiono aver memorizzato le posizioni sulla tastiera e il contrappunto sembra non rompersi. Sara ha improvvisato un girotondo intorno al piano e poi si è messa a ballare. Infine si è seduta vicino a me e alla chiusura del brano è partito un applauso:
«Brava mamma. Sei arrivata fino in fondo senza fare errori.»
«Ora prova tu.»
Si è seduta al piano e le sue piccole dita si sono mosse con competenza sulle prime battute del contrappunto, il re e il la di 2/4, seguiti da altri 2/4, fa, ancora re e poi quell’inaspettato do# che spinge la melodia fino al fa successivo, prima che l’universo di variazioni apra il suo corso. Alla battuta 26, senza nessun errore evidente, si è fermata.
«La so fino a qui.»
«Bravissima. Ora a nanna, piccola mia.»
Mi ha abbracciato e si è infilata nel suo lettino, addormentandosi poco dopo. L’ho guardata a lungo prima di scendere in salotto.
Mi sono seduta vicino a Manuel e gli ho preso le mani.
«Una vita così non ha senso.»
Lui ha annuito stringendo con forza le mie dita.

Dopo i primi ostacoli superati e con la sensazione di aver preso un buon ritmo di esecuzione, può succedere che alcuni pensieri si affaccino alla mente. Niente di più sbagliato. Qualsiasi distrazione potrebbe costare cara e anche una sola nota fuori dalla partitura potrebbe compromettere l’esecuzione. Giunti in prossimità delle battute finali non bisogna far calare la tensione o lasciarsi distrarre da altro. Occorre rimanere costantemente concentrati sul ritmo dei nostri gesti e l’interpretazione di ciò che stiamo eseguendo.

Seduta sopra una panchina del parco, osservo la piccola che dondola sull’altalena, mentre Manuel le gira intorno. Sembriamo una famiglia felice, come le molte altre che popolano il verde pubblico in questa soleggiata domenica. Chiudo gli occhi e respiro con calma, cercando di allontanare i pensieri. Vorrei fosse solo un sogno, così da potermi risvegliare senza che parole del professor Giorgi girino continuamente nella mia testa.
Devo indirizzare i miei pensieri altrove. Penso alla fuga che sto eseguendo, al vecchio Bach, anziano, quasi cieco e già ai margini del suo tempo. Per capire l’infanzia di un’opera, occorre pensare all’infanzia di Bach. Non si può afferrare il senso della fine senza aver compreso l’inizio.
E così ho immaginato un bambino, un bambino come Sara, che corre in quelle vecchie casette di Eisenach. Ecco il primo infinito mondo di fantasia di quel bimbo: gli irraggiungibili angoli, la stravagante borchia della porta d'ingresso, la cappa nera sopra il focolare nella cucina a volta, il pallido bagliore dei paioli, gli indimenticabili odori di arrosto. Lo sguardo di quel piccolo si posa sulle scure travi dei soffitti, ma soprattutto sugli strumenti musicali, davvero tanti tra quelle mura: liuti, le viole con le teste d'angelo e di leone, e il luccichio dell'ottone delle trombe alle pareti rivestite di tavole.
In nessun caso, nemmeno dopo aver ascoltato il vero Opus Ultimum di Bach, intriso di tutta la sua sublime grandezza musicale, dovremmo trovarci davanti a un ultimo brano. Nei contrappunti dell’Arte della Fuga non c’è la fine, ma l’inizio, il passato e il futuro.
E se fosse così anche per noi? La fine di qualcosa rappresenta sempre un nuovo inizio. É prendere coscienza di una realtà indiscutibile: la fine che mi riguarda è la più comune delle esperienze, non è l’unica, è universale. Non siamo indispensabili, la vita continua, gli altri possono fare a meno di noi.
In sei giorni Sara ha imparato l’intero primo contrappunto. Perché non riesco a considerarlo un risultato straordinario?

È indispensabile che la nostra corsa non ceda a rallentamenti e occorre mettere in gioco tutte le energie spendibili. Dare il massimo che posso dare, significa aver fatto tutto il possibile per avvicinarmi a una perfetta esecuzione.
Tuttavia, in ogni esibizione pubblica, gli elementi che possono disturbare l’esecuzione sono innumerevoli, e quello che ci ripetiamo mentalmente, ogni volta che siamo ai blocchi di partenza, non corrisponde quasi mai a quello che succederà durante un concerto.

La fuga è una forma contrappuntistica nella quale un soggetto trova le sue risposte, quindi non è altro che la risposta adeguata a una domanda ben precisa. Non posso fuggire da ciò che è inevitabile. Non ci sarà un Contrapunctus II.
Ancora uno, due mesi, non di più. La previsione del professor Giorgi alla fine si è avverata: Sara si è spenta nel sonno senza nemmeno accorgersene. Seppur consapevoli da tempo, né io né Manuel eravamo preparati a una simile sofferenza.
Sara è stata programmata dall’ equipe del professor Giorgi per durare due anni, ma i modelli di nuova generazione, la SX2, tendono a esaurirsi prima. I progressi sugli ultimi prototipi hanno portato a incredibili risultati sulla crescita e apprendimento infantile, ma non riescono ancora a far vivere questi bimbi artificiali oltre il periodo previsto.
Nel tempo che abbiamo trascorso insieme, Sara non ha mai sospettato di nulla. É sempre stata, fin dalla data della sua creazione, una bambina dell’età di cinque anni, che un mattino si è svegliata convinta di essere nostra figlia. Una figlia desiderata e amata dai suoi genitori, indispensabile percezione per la sua crescita emotiva. Ed è per questo che il suo addestramento prevedeva due figure genitoriali, presi dal nostro gruppo di lavoro, che vivessero con lei. La scelta è caduta su di noi, perché sposati, senza figli e perché entusiasti del progetto in corso.
Tutto ha funzionato alla perfezione, l’integrazione tra stimoli e ricordi, il programma di apprendimento attraverso i suoni e la musica, le autonome relazioni affettive, le corrette risposte emotive del prototipo.
Ciò che non avevamo previsto, nell’inusuale ruolo genitoriale, erano le nostre emozioni, il forte legame che si è creato con una bambina davvero speciale. Siamo entrati talmente bene nella parte che abbiamo amato Sara in modo spontaneo e sincero. E ora non possiamo gioire dello splendido risultato scientifico, perché è come se avessimo perso una figlia vera.
Suono spesso il Contrapunctus I di Bach. Nelle prime battute vedo Sara mentre gira intorno al pianoforte, quando sopraggiungono le seconde e le terze voci, eccola roteare su se stessa e poi a metà del brano la osservo ballare goffamente, ridere, e lasciarsi cadere a terra. Quando finisco di suonare è proprio di fianco a me che ripete la stessa identica frase:
«Brava mamma. Sei arrivata fino in fondo senza fare errori.»
La sento, la vedo e so che vive ancora tra le note di quel brano, perché ogni volta che suono, lei è qui, vicino a me. 
Non so dove si nascondono le note, ma mi piace pensare che suonando, loro ritornino, come un dono prezioso. In fondo è il regalo più dolce che una figlia possa fare alla propria madre: tornare da lei trasformandosi in musica.