Seconda edizione 2003 • secondo classificato seconda categoria

Fessure

Paola Cagol

IL RACCONTO

Uno, due. Uno, due. Uno, due. Se non fosse stato per l’odore di benzina, che ne aveva impregnato irreversibilmente ogni fibra. Perché anche lavandola, al massimo si infittiva, ma quell’odore restava, ormai indelebile. E se non fosse stato per la consistenza a contatto con la pelle, per quella sua fisicità ruvida, dura, più che mai pizzicante, il gioco aveva qualcosa di assolutamente straordinario. Uno, due. Uno, due. C’era il senso del pericolo. Il pericolo di cadere. Il pericolo di essere lanciata via, lontano. Il pericolo che, finito il gioco, tutto quello che si era mescolato, non tornasse più come prima. Il sotto. Il sopra. I confini delle cose.

Era tutto buio dentro la coperta. Uno, due. Uno, due. Ma sopra, ogni tanto, i lembi si aprivano e strisce informi di mondo le allagavano gli occhi. Uno, due. Cielo, bosco. Cielo, prato. Prato, bosco. Buio, luce. Uno, due. Verde, azzurro. Giallo, nero. Uno, due.

La coperta scozzese era un indispensabile accessorio della Fiat 850 Special e stava sempre, ben ripiegata, nel bagagliaio. Per ogni evenienza e per i pic-nic della domenica. La Fiat 850 Special era bianca, sobriamente opaca ed uniformemente immacolata, come i confetti della prima comunione. Aveva i rivestimenti rosso fuoco ed i sedili pure rossi, di finta pelle, con i profilini neri.

Elena non si muoveva proprio, dentro quel bozzolo ruvido, a quadri rossi e verdi. Non avrebbe senz’altro potuto farlo, per via della gravità che, con ogni oscillazione, la comprimeva sempre più al centro, dove la coperta era piegata esattamente a metà, nel punto in cui avevano origine le due falde, che dondolavano a ritmo, e che ogni tanto si distanziavano e poi tornavano a riunirsi. Cielo, prato. Prato, bosco. Buio, buio.
Cielo, mamma. Buio, buio. No, non avrebbe potuto muoversi, ma nemmeno lo avrebbe voluto. La vita le pulsava magicamente negli occhi, nella pancia, nel respiro. Uno, due. Uno, due.

Elena sudava lì dentro, sudava tanto, ed il sudore puzzava anche lui di benzina. E si mescolava con il frastuono del fuori. Risate. Urla. Basta, povera bambina, mettetela giù. Chi guarda le salsicce? c’è odore di bruciato. Dove sono gli uomini? sempre a fare scemenze. Uno, due. Uno, due.
Era bellissimo avere paura. Una paura da matti. Perché ci pensavano loro, in canottiera e pantaloncini, a gambe divaricate, uno di fronte all’altro, in mezzo al prato, con gli angoli in mano. Due a testa. Ci pensavano lo zio ed il papà, che tenevano la vita di Elena sollevata da terra, a sorvegliare i confini dello spazio e del tempo.

A garantire che il sopra ed il sotto, le strisce di mondo, il prato e la terra, sarebbero tornati al loro posto e che, in ogni caso, non c’era nulla di cui preoccuparsi davvero. Adesso ti buttiamo nella fontana. O sul formicaio. Uno, due. Uno, due. Eccolo, il formicaio. Eccolo, eccolo.
Terra. Finalmente. Finalmente aria, tanta, quasi troppa. La testa gira, ma la terra non è mai stata così solida. Risate, pizzicotti. Solletico di mosche ed odore di salsiccia.

Oggi è giorno di pulizie. Elena non vuole pensare troppo ai lavori di casa. Ma, quando li fa, è meticolosa.
Le fessure. Le fessure sono la spia della vera igiene di una casa. Non solo quelle tra le mattonelle, ma anche quelle nella cornetta del telefono, o nelle zigrinature dei tappi bianchi dei cosmetici, allineati sul bordo della vasca da bagno. Le fenditure sul bordo dei coperchi, dove sono sbalzati, per aderire con precisione alle pentole. E intorno agli interruttori della luce. Usa i guanti, per non rovinarsi le mani. Perché ormai ha superato i quarant’anni da un po’ e ha capito che certe piccole attenzioni fanno la differenza.

Elena non procede a caso, nelle pulizie, ma ha dei criteri precisi. Da nord a sud, dalla finestra alla porta, dall’alto al basso. Prima spolverare, poi passare su mobili ed oggetti il panno secco o appena umido, a seconda della necessità, e scovare le fessure, e ripassare i bordi, e aggredire gli angoli nascosti, poi passare l’aspirapolvere o spazzare, innaffiare le piante, e, solo alla fine, lavare i pavimenti. Bagna le piante solo dopo aver spazzato, altrimenti le gocce d’acqua cementano la polvere e lo sporco. Ma lo fa rigorosamente prima di lavare i pavimenti, così non resta l’alone delle gocce sulle mattonelle lucide.

Le regole sono importanti, per Elena. Il mondo è come un disegno tracciato con il pennarello nero e con gli spazi accuratamente colorati, tra una linea e l’altra. Ma i contorni vanno sorvegliati, lei lo sa, perché quelle linee sono segni irresponsabili, che ad un certo punto si allentano e cedono, e allora le forme si alterano ed i colori, non trovando confini, debordano e si mescolano. Ed il mondo precipita nel caos. Nella follia.
Ci vuole sempre qualcuno che sorvegli i confini. Per se stesso e, soprattutto, per quelli che ama.

Elena vive da sola, non si è mai sposata, e dunque il compito, per lei, è ancora più importante. È fondamentale. Ci vogliono le regole e la pulizia, perché nessuno veglierà sul suo equilibrio, nessuno proteggerà la sua vita dallo scompiglio e dalla perdita dei limiti.

Lui assaggia la cotoletta fumante. Elena alza lo sguardo e lo osserva. Non è proprio quello che si può definire il suo tipo. Un po’ impacciato nei modi e nel vestire. Ma l’ha invitata al ristorante con sorprendente determinazione. E quando le parla, la guarda negli occhi.
È agitata. Da quanto non le capitava di uscire con un uomo! Si è messa qualcosa di rosso ed anche un po’ di trucco. E un po’ di tacco. Lui ogni tanto le chiede se ha freddo, o se ha caldo. Se ha ancora fame, se può versarle di nuovo del vino.

L’aveva conosciuto qualche settimana prima. Glielo aveva indicato la sua collega Lucia, dicendole di chiedere a lui per il mutuo, che lui era competente, che era gentile. Era entrata nel suo ufficio, che era piuttosto in disordine, e aveva notato, subito, la cornetta del telefono. Sporca. In generale, ma soprattutto nelle fessure. E aveva dovuto tornarci più volte, in quell’ufficio. Però le volte successive avevano riso. Lei aveva scommesso un caffè, che per la sua pratica avrebbe dovuto aspettare, e lui aveva detto che no, che sarebbe stata pronta entro la settimana. E lei aveva vinto la scommessa.
C’erano stati degli intoppi. Intoppi assolutamente imprevisti e imprevedibili. E così lui le aveva proposto la cena, al posto del caffè. Era stato deciso, nonostante l’evidente imbarazzo, con cui lei aveva reagito.
Elena ride e stropiccia il tovagliolo con le mani unte di pollo.

Perché lui la provoca con certi discorsi ed intanto le versa ancora del vino. È diretto, veramente diretto, mentre le fa domande sul sesso ed espone i suoi punti deboli nelle questioni d’amore. Sembra onesto. Elena lo ascolta e poi impulsivamente muove un braccio. Sta dicendo «ma dai!», quando lui si definisce ormai troppo vecchio per piacere alle donne. E con quel gesto, urta distrattamente un bicchiere. Il vino scappa sulla tovaglia e le gocciola sulla gonna chiara, di lino. Un alone rosso, irregolare, sfumato. Proprio vistoso. Indelebile. Almeno fino al suo prossimo ritorno a casa. Lui dice che porta fortuna e propone un altro brindisi. L’ultimo, perché la bottiglia è finita. Elena ride e avvicina il bicchiere alla bocca.

Il ristorante sta per chiudere ed Elena passa per il bagno, prima di uscire. Va sempre in bagno, nei posti nuovi. Si guarda allo specchio. L’alone di vino. Il rossetto sbavato. Intorno agli occhi tracce di rimmel, forse di quando aveva pianto, a forza di ridere. La testa le gira ed è inutile cercare di rimediare, di risistemare quei colori debordati al di là dei confini. Si tampona con l’acqua le guance accaldate e guarda i propri occhi scuri rilessi. Sono stanchi, ma luminosi.

Fuori piove a dirotto e, quando corrono verso la macchina, lui la prende per mano. La pioggia le cola sul viso. S’infila dovunque, incontenibile, nelle pieghe dei vestiti. Nelle scarpe, nella borsa. Indiscriminatamente, in ogni fessura. La pioggia lava via la polvere dalle automobili, trasporta e sbiadisce le cartacce abbandonate sulla strada.

L’acqua schizza, esplode, da sotto i loro piedi svelti e distratti e anche da sopra. Dal cielo e dai tetti. Dai lampioni giallastri. Le gocce fitte e veloci sfumano i confini delle cose.
Lui la bacia, in piedi, trattenendola davanti alla portiera dell’auto. Con la pioggia che si infila, prepotente, anche tra le loro labbra.
Elena si ferma e chiude gli occhi. Forse, non c’è bisogno di avere paura.