Seconda edizione 2003 • vincitore seconda categoria

La scorciatoia

Alessandro Genovese

IL RACCONTO

La chiamavamo la Scorciatoia. Un boschetto infestato da erbacce che separava il cortile di casa mia dall’oratorio e conduceva direttamente al campo di calcio attraverso un buco nella rete metallica. Per noi rappresentava il sistema migliore per arrivare in fretta al campo senza correre il rischio di incrociare le nostre madri al ritorno dal supermercato ed essere rispediti di corsa a finire i compiti. Per i ragazzi più vecchi e più temerari, il posto ideale in cui appartarsi con le amichette nelle notti d’estate, protetti dalle pareti di sasso di un vecchio casolare a cielo aperto in disuso da chissà quanto tempo.

Sul lato opposto del casolare, seminascosta da ciliegi e alberi di fichi, una casa gialla con una grande terrazza ci ricordava che quel luogo, nonostante l’atmosfera da terra di confine, non era affatto disabitato. Ogni sera sulla terrazza compariva un vecchio con lunghi capelli grigi, in tuta da meccanico. Era un uomo alto e massiccio, leggermente ingobbito, e usciva sempre verso ora di cena.
Si accendeva una sigaretta, dava un’occhiata al cielo, poi si appoggiava coi gomiti alla balaustra di pietra e fissava un punto davanti a sé. Poteva rimanere in quella posizione per delle ore o anche soltanto il tempo di fumare, ma se intravedeva qualcuno cominciava a sbraitare così forte che la sua voce rauca e catarrosa rimbombava tutto intorno, e ci metteva i brividi.

Si raccontava in giro che una volta il vecchio, dopo aver sorpreso due dei nostri a rubare ciliegie da uno dei suoi alberi, gli avesse sparato addosso con un Flobert, un fucile a pallini di piombo che a toglierli dal culo eran dolori. Si diceva anche che tenesse una figlia segregata in cantina giorno e notte, e che le servisse i pasti attraverso una grata nella porta. A dire il vero quella figlia nessuno l’aveva mai vista ma ogni tanto, quando si andava a bere alla fontana a lato del campo di calcio, a pochi metri dalla casa, capitava di sentire un lamento sommesso, una nenia dolente che seminava tristezza.

A noi quel boschetto sembrava una jungla, fitta di piante dalle foglie enormi e attraversata da suoni sinistri, e decidere di passarci in mezzo equivaleva a prepararsi a una specie di missione di guerra.
Ci si radunava sotto il caco nel cortile di casa mia e si estraeva a sorte chi doveva andare in perlustrazione. Di solito erano in due e il loro compito era controllare che tutto fosse tranquillo mentre gli altri guardavano le spalle, e il segnale erano due fischi in sequenza, corti ed acuti, seguiti da una pausa e da un altro fischio più lungo.

A quel punto si scavalcava la rete uno alla volta, si saltava dal muretto e poi si cominciava a correre tenendosi il più bassi possibile, le ginocchia piegate fin quasi a terra e il mento a due spanne dall’erba, facendo attenzione a non graffiarsi braccia e gambe tra i rovi spinosi e pregando che il vecchio non fosse lì, con il fucile puntato, pronto a impallinarci. Arrivati al buco ci infilavamo dentro e passavamo dall’altra parte, ci calavamo lungo uno dei due lampioni che illuminavano il campo finché, ebbri di eccitazione, appoggiavamo i piedi sul nostro territorio.

Quel pomeriggio mia madre era andata dal medico. Prima di uscire mi aveva raccomandato di non combinarle scherzi e di aspettarla a casa, ma mi erano bastati dieci minuti sul libro di matematica per bussare alla porta di Marco, che abitava due piani sotto, e proporgli di andare a vedere se al campo c’era qualcuno.
Però niente Scorciatoia, ok? disse lui, deciso. Siamo solo in due e non ne ho nessuna voglia. E poi l’ultima volta ci ho lasciato i pantaloncini nuovi, su quella maledetta rete! Me li aveva regalati mio padre per il compleanno e quando ha visto lo strappo mi ha preso a sberle e mi ha detto che un altro paio me lo sogno…

Sei il solito cacasotto, risposi io. Conoscevo Marco dalla prima elementare, sapevo che niente lo irritava di più che sentirsi dare del codardo e quando lo vidi infilare il pallone di cuoio nello zainetto fui certo di averla avuta vinta. Non avevamo mai attraversato la Scorciatoia senza prima mandare qualcuno in perlustrazione e la cosa mi galvanizzava, ma mi metteva addosso anche un’ombra di paura.
Sicuro? mi chiese Marco. Eravamo sotto il caco e il sole, filtrando tra i rami, accendeva la scorza verde dei frutti ancora acerbi.
Mai stato più sicuro in vita mia, risposi io, la gamba destra già al di là della rete.
E se c’è il vecchio?
Non ci sarà. Sono le quattro del pomeriggio, lo sai che prima dell’ora di cena non si fa mai vedere.
Allora andiamo.
Andiamo.
Saltai dal muretto e aspettai il mio amico. Poi cominciammo ad addentrarci nel boschetto, lentamente, scambiandoci occhiate furtive e cercando di evitare ogni rumore inutile, sovrastati da un silenzio spettrale e reverente.

Eravamo a metà del percorso quando sentimmo la voce del vecchio.
Chi c’è laggiù! Fatevi vedere!
Non fermarti, dissi io. Una vespa mi ronzava intorno alla faccia e la scacciai con la mano.
Marcò annuì, e si sdraiò con la pancia a terra. Strisciammo per un paio di metri e mentre avanzavo sentivo il suo respiro farsi affannoso.
Io torno indietro, balbettò.
Non dire cazzate. Mancano pochi metri e arriviamo al buco.
Ti dico che torno indietro. Ci ha visto e ci sparerà addosso!
Non sparerà a nessuno, falla finita.
Come lo sai?
Lo so e basta.
Allora, volete farvi vedere, piccole pesti? Adesso vengo là e vi prendo per le orecchie, maledetti mocciosi! La voce ora era più vicina, e quando girai la testa vidi il vecchio scendere i gradini della terrazza, farsi largo tra i rami dei ciliegi e venirci incontro a passo deciso.
Io me la batto, sibilò Marco, e non ebbi neppure il tempo di rispondergli che era già schizzato via, sgusciato tra i cespugli come un’anguilla.

Il tuo amico se l’è svignata, disse il vecchio. Era in piedi di fronte a me e mi guardava dritto negli occhi, dall’alto in basso. Aveva una faccia fiera, da capo indiano, solcata da rughe profonde agli angoli degli occhi e sulle guance. Prese un pacchetto di tabacco dalla tasca della tuta blu e cominciò ad arrotolarsi una sigaretta, senza smettere di fissarmi.
Già, risposi io. Sentivo la bocca impastata e le gambe pesanti, e mi girava la testa.
Tu invece sei rimasto, bravo. Lo sai che questa è proprietà privata? mi chiese, infilandosi la sigaretta fra le labbra. Poi prese un fiammifero e l’accese con l’unghia del pollice. Non è la prima volta che attraversi il mio giardino, vero?
No.
E come mai?
Si arriva prima al campo di calcio.
Non mi piace che giriate qua intorno. I vostri schiamazzi mi disturbano, e mi rubate le ciliegie.
Io non ne ho mai rubata una.
Giuralo.
Lo giuro.
Si era alzato un vento leggero, che muoveva le foglie e le faceva frusciare. Mi asciugai il sudore dalla fronte con la manica della maglietta e lo guardai. Ora mi dava quasi le spalle e mentre fumava sembrava misurare con lo sguardo la distanza che lo separava dal profilo irrequieto delle montagne, all’orizzonte. Diede un’ultima boccata alla sigaretta, gettò il mozzicone per terra e lo schiacciò con la suola degli scarponi. Poi si girò di nuovo verso di me.
Quanti anni hai, ragazzo?
Tredici.
Il vecchio inarcò le sopracciglia. Tredici, disse.
Esatto.
Il vecchio sorrise. Io quando avevo tredici anni dicevo sempre di averne quindici. Anche il tuo amico ha tredici anni?
Quattordici.
Ma tu sei il capo.
Non c’è nessun capo. Siamo amici e basta.
Naturalmente.
Rimanemmo in silenzio per un po’ e io guardai il muro del casolare, su cui l’ombra obliqua di un gatto sdraiato al sole sembrava una figura ritagliata nella carta.
Tu mi sembri un tipo coraggioso, disse il vecchio. Ti va di vedere una cosa?
Che genere di cosa?
Di quelle che piacciono a voi ragazzi, rispose, e si incamminò verso la casa. Io rimasi dov’ero, incapace di muovermi. Lui si girò a guardarmi.
Avanti, coraggio! Di che hai paura? urlò, e c’era in quel sorriso una luce così seducente che dimenticai tutte le storie che avevo sentito sul suo conto e lo seguii.
Nella cantina il buio era assoluto, l’odore di muffa così intenso da stordirmi. Il vecchio scendeva con cautela, puntando la torcia sui gradini sbrecciati e sulle pareti umide.
Eccoci arrivati, disse. Tutto a posto?
Nessun problema.
Bene, aggiunse. Poi premette un interruttore alla sua destra e un attimo dopo una lampadina pendente dal soffitto illuminò un tavolo di legno, due sedie e una credenza.
Mettiti pure comodo. Ti piace il vino?
Non lo so. Non l’ho mai assaggiato.
Dici sul serio? Be’, questa mi sembra l’occasione adatta, disse. Si girò, aprì la credenza, prese una bottiglia e due bicchieri e li posò sul tavolo. Riempì i bicchieri fin quasi all’orlo e si sedette.
Vino moscato, disse. Lo faccio io, da vent’anni, e come vedi sono ancora in piedi.
Afferrai il bicchiere e diedi una lunga sorsata. Era molto più dolce di quel che mi aspettavo. Buonissimo, dissi.
Però, niente male per essere la prima volta! gracchiò il vecchio. Alla tua, ragazzo! aggiunse, e svuotò il suo bicchiere inclinando la testa all’indietro. Poi lo riempì di nuovo.
Hai sempre voglia di vedere quella cosa, vero?
Certo, risposi con la voce stridula, e diedi un altro sorso.
Il vecchio si alzò, rovistò in un cassetto della credenza, tirò fuori un piccolo fagotto di stoffa e lo mise nel centro del tavolo.
Avanti, aprilo.
Mi sembrava che il fagotto ondeggiasse sulla tovaglia cerata. Allungai le mani, spostai i lembi uno alla volta e la vidi, nuda, nera e lucente.
È vera? domandai, incapace di staccare gli occhi.
Che domanda, certo che è vera! rispose il vecchio, e mi si sedette accanto. È una Luger. Seconda guerra mondiale. Apparteneva a un soldato tedesco caduto in un’imboscata. Ti piace?
È stupenda.

Su, provala, disse, e me la mise in mano. Pesava molto meno di quella che vendevano al negozio di giocattoli e quando strinsi le dita intorno al calcio sentii un brivido scorrermi lungo il braccio, fino al gomito. Mi alzai in piedi e mi misi in posa, provando a imitare un poliziotto che avevo visto in un film, le ginocchia piegate e le braccia tese in avanti, la pistola impugnata a due mani.

Si alzò anche il vecchio. Trangugiò il vino rimasto nel bicchiere, sputò per terra e si pulì il mento con il dorso della mano. La luce della lampadina, fioca e giallastra, gli incorniciava il profilo della testa e gli avvolgeva i capelli bianchi in una luminosità profetica.
Sembri nato per questo, ragazzo, disse. Perché non provi a premere il grilletto? Una piega interessata gli attraversò la bocca.
È carica?
Certo che no, disse lui. E il suo sorriso si allargò.
Poi il colpo esplose e l’eco dello sparo risuonò nella cantina come un tuono, e quando riaprii gli occhi vidi il bicchiere che rotolava rigidamente sul pavimento.