Seconda edizione 2003 • segnalato seconda categoria

Il falegname

Fabio Marcotto

IL RACCONTO

Ogni racconto ha un difetto e Green lo stava cercando.
Suonarono alla porta. Green andò ad aprire. Si trovò davanti una faccia sconosciuta. Un uomo sui cinquanta, emaciato, con la barba incolta, i capelli grigi pettinati all’indietro e due grandi occhi chiari scavati nel viso.
L’uomo non disse niente e continuò a fissare Green. Green abbassò lo sguardo e vide la scatola di ferro che l’uomo teneva nella mano destra. In quel momento si ricordò il biglietto di Ioulia. La moglie gli ricordava che martedì sarebbe venuto il falegname a montare la libreria.

Green pensò di telefonarle perché capiva pochissimo il russo e non lo parlava affatto. L’uomo tuttavia era già sulla soglia. Green lo fece entrare con un cenno della mano.
« Lei è il falegname?», gli chiese in inglese. L’uomo rispose in russo, poche parole e a bassa voce. In quelle parole Green distinse il nome della moglie e fece sì con la testa. L’uomo posò la cassetta degli attrezzi sul pavimento e uscì. Tornò qualche minuto dopo con alcune assi. Poi scese a prenderne altre.

Un’ora più tardi le assi di faggio erano accatastate in salotto. Green indicò la parete imbiancata di fresco. Dal taschino della camicia l’uomo tirò fuori un foglio e lo aprì sull’ultima asse della catasta. Green lo osservò da vicino. Riconobbe il disegno dell’architetto e disse ok.

Il racconto era un buon racconto ma c’era qualcosa che non andava. Non era il soggetto. Il titolo era efficace, l’incipit buono. La struttura rivelava una mano esperta.
Green alzò gli occhi dal computer e li fece girare per la stanza. Si alzò, andò alla finestra, la aprì, si rimise a sedere. Prese un giornale e cercò di colpire la mosca sul davanzale. Poi lo piegò e se lo agitò davanti al viso per muovere l’aria che pesava nella stanza.
Iniziò a studiare la psicologia dei personaggi, soprattutto quella del padre. Era esile ma coerente, e verosimile. Lo scrittore era stato abile: ne aveva affidato la responsabilità ai ricordi del figlio.

Un colpo secco lo fece sobbalzare sulla sedia. Ne seguì un altro e un altro ancora. Poi un’asse rotolò sul pavimento e ci fu qualche secondo di silenzio. Ma subito il falegname riprese a lavorare. Adesso i colpi vibravano nel muro. Green si alzò per andare a vedere.
L’uomo si era tolto la giacca, e un’enorme chiazza di sudore bagnava la camicia sotto l’ascella. Stava in piedi su una sedia e con un martello aggiustava una traversina d’acciaio. Non si era tolto le scarpe. La cosa irritò moltissimo Green che pensò di riprenderlo. Esitò perché gli mancavano le parole; nello stesso momento venne investito dall’aria greve e piena di polvere della stanza. Entrò, andò alla finestra e l’aprì. Poi tornò nel suo studio.

Nello studio l’afa si era fatta insopportabile. Il sole colpiva in pieno la finestra aperta. Due mosche si erano posate sul computer. Green afferrò il giornale e lo alzò con rabbia. Ma subito lo posò e cacciò le mosche aprendo lentamente il braccio.
Adesso i colpi del falegname rintuonavano nel cortile interno. Erano colpi scanditi da un ritmo preciso e spezzati dall’eco che rimbalzava contro i muri del palazzo di fronte.

Green salvò il testo, lo chiuse ed entrò in internet. Scrisse un’e-mail al direttore per chiedergli la conferma delle date. Poi spedì il messaggio.
Tornò al racconto del quale iniziò a studiare il sistema delle immagini. L’autore non amava le metafore e tantomeno le similitudini; le poche erano ordinarie e addirittura banali. Scoprì, per la probabile azione di un’assonanza, una locuzione distratta. In questa locuzione un «incidente scoppiava». Cancellò «incidente» e ci scrisse sopra «incendio».
Poi in salotto i colpi cessarono. Green controllò l’orologio: erano quasi le sette. Spense il computer e andò a vedere. Il falegname aveva finito di montare il telaio d’acciaio e stava riponendo gli attrezzi nella scatola di ferro. Green entrò nella stanza ma il falegname alzò lo sguardo solo quando ebbe finito di raccogliere le punte del trapano. Sistemò tutto in un angolo, si mise la giacca e raggiunse la porta. Fissò Green in silenzio. A domani, disse.

Ioulia tornò dopo le otto e chiese se il falegname era arrivato. Si tolse le scarpe e precedette il marito in salotto. Osservò la struttura d’acciaio da lontano. Poi salì sulla sedia, fece passare l’indice su una traversina, scese e osservò attentamente il disegno aperto sull’asse di faggio. Alzò di nuovo gli occhi sul telaio fissato alla parete e sorrise.
Prima di andare a dormire Green accese il computer e controllò la posta. L’e-mail del direttore confermava una data che gli sembrò troppo vicina. Ma per una buona recensione tre o quattro ore potevano anche bastare.

Il falegname arrivò alle dieci. Salutò con un cenno del capo e andò subito in salotto. Green chiuse la porta dello studio. Avvertì immediatamente una sensazione di caldo soffocante e controllò il termometro sullo scrittoio: segnava ventotto gradi, un grado in più del giorno prima. Andò alla finestra. Quando l’aprì una mosca gli ronzò intorno nervosa e andò a posarsi sul soffitto. Green si sporse oltre il davanzale. Fuori il cielo era color panna e l’aria piena di batuffoli bianchi che galleggiavano contro la facciata del palazzo di fronte. In cortile due uomini stavano piegati sul motore di una Zhigulì celeste.

Green si mise al lavoro. Rilesse quello che aveva scritto il giorno prima e pensò che aveva detto poco più di niente. Aprì il libro. Lo richiuse. Si alzò ma subito tornò a sedersi.
Pensò di studiare i tempi della narrazione. Per concentrarsi solo su quelli lesse il racconto di getto: l’intreccio coincideva con la trama; il tempo della narrazione era unico; non c’erano flashback. I modi dell’autore non sperimentavano nulla di nuovo. Eppure nel racconto Green sentiva la forza di una voce originale. E, allo stesso tempo, stonata.
Iniziò a prendere in esame le varietà linguistiche. Sottolineò un discorso diretto del protagonista ma subito lo distolse un colpo sordo che rintuonò nella parete. Ne seguirono altri due. Quindi si levò nell’aria il frullio di un trapano che girò a vuoto due o tre volte. La punta trovò il muro e il frullio diventò una vibrazione che andò rallentando e si esaurì in un lamento soffocato.

Adesso il falegname fissava le viti e lavorava con le finestre aperte. Il frastuono rimbalzava contro i muri del palazzo di fronte e invadeva lo studio di Green. Green guardò l’orologio. Si alzò, chiuse la finestra e tornò a sedersi. Rilesse quello che aveva scritto. Poi uscì in corridoio.
Aveva bisogno di pensare e per pensare doveva muoversi. Doveva passeggiare per strada, organizzare le idee.
Si mise le scarpe ed entrò in salotto. Il falegname si chinò sul trapano e lo vide. Rimase a guardarlo in silenzio. Green si avvicinò e gli disse che usciva. Lo disse in inglese, ma mostrò le chiavi e si batté l’indice sull’orologio. Un’ora, disse, e alzò il pollice.

Uscì in strada. L’aria era ferma e pesante, il cielo biancastro. Prese a destra lungo il canale e dopo un centinaio di metri lo attraversò sul ponte L’vinyj. Tornò indietro sull’altra sponda perché quella era l’ansa più bella del Griboedova. E anche la più calda, in inverno. Pronunciò a voce alta il titolo che aveva pensato per la recensione. Non gli piacque e ne cercò un altro. Poi un terzo e un quarto. Si decise per il terzo. Immaginò quindi l’attacco del pezzo; trovò le parole e le sistemò nella frase. Raggiunse il ponte Harlamov e lo passò. Davanti al 104 si fermò; quella era la casa della vecchia uccisa da Raskol’nikov ma ancora una volta Green pensò che era una casa assolutamente normale.

Un cane gli si fece incontro annusando l’aria e poi le sue scarpe. Green lo cacciò con un movimento del piede, quindi risalì il canale, passò di nuovo sul ponte L’vinyj e ripeté il giro di prima. Poi imboccò la Dekabristov e svoltò nel Pracecnyj verso la Neva. Camminava a testa bassa e si accorse della cinepresa solo quando fu a pochi metri di distanza. Giravano un film e avevano chiuso il vicolo. Pensò di tornare indietro e di aggirarlo sul Fornarnyj.
Invece tornò a casa.
Controllò l’orologio: erano passati quaranta minuti e gli rimanevano poco più di tre ore.

Quando aprì la porta il falegname si girò di scatto. Stava in mezzo al corridoio e nella mano sinistra teneva un martello. Sotto lo specchio c’era un’asse segata a metà. In fondo, davanti alla porta del salotto, la scatola di ferro con gli attrezzi era appoggiata al calcio del trapano.
Per qualche secondo Green rimase sulla soglia senza dire niente. Si accorse dell’afa solo quando un colpo d’aria gli schiacciò la camicia contro la schiena bagnata.

Entrò e chiuse la porta. Fece girare lo sguardo sul pavimento, lo alzò alle pareti e ne seguì il perimetro. La porta dello studio era aperta. In quel momento sentì l’urlo del motore che girava in folle nel cortile di sotto. Pensò che anche la finestra doveva essere aperta. Cercò di ricordarsi se prima di uscire l’aveva chiusa ma il falegname disse qualcosa che lo distrasse. Green ne cercò gli occhi. Li trovò per la frazione di un secondo, poi subito il falegname abbassò lo sguardo.

Sudava. Una goccia gli scese lungo la guancia; vacillò sul mento e cadde sul tappeto. L’uomo bisbigliò poche parole, indicò l’asse, e la porta del salotto. Fu in quel momento che Green fece caso alla sua mano destra: ne mancavano il medio e l’anulare, e l’indice tremava. Ma subito il falegname abbassò il braccio e lo schiacciò contro i pantaloni.
« Cosa fa?», chiese Green.
Il frastuono del motore in cortile coprì il suono delle parole pronunciate a voce troppo bassa.
« Cosa fa?», ripeté in inglese, e più forte.

Il falegname lo fissò, poi i suoi occhi cercarono intorno e si fermarono sulla porta del bagno. Indugiarono nervosi, tornarono su Green, scivolarono di nuovo alla porta. In corridoio non c’era un filo d’aria e il caldo si era fatto insopportabile. Improvvisamente il motore cessò di girare e ci fu silenzio. Nella tensione irreale Green cercò qualcosa da dire. Fu un attimo. Poi in cortile si levarono i colpi metallici di una lamiera percossa.
Una mosca si staccò dal soffitto, ronzò intorno al lampadario e si posò sulla cornice dello specchio davanti all’ingresso. Gli occhi del falegname ne seguirono il volo, poi scivolarono di nuovo sulla porta del bagno. Rimasero fissi sulla porta per un tempo che a Green sembrò troppo lungo. La porta era socchiusa. Green avanzò di mezzo passo e intravide la biancheria nera di Ioulia stesa sui fili sopra la vasca. Arretrò di nuovo e i suoi occhi si fermarono sulla mano dell’uomo che pizzicava nervosa i pantaloni di tela. Poi il falegname abbassò la testa e tornò in salotto.

È un bel racconto, scrisse Green, ma.
Cacciò la mosca che ronzava attorno allo schermo del computer. Si alzò, andò in cucina, spalancò la finestra e guardò di sotto. Adesso gli uomini che lavoravano sul motore della Zhigulì celeste erano tre. Uno di loro entrò nell’abitacolo e accese il motore. Dal tubo di scappamento uscì uno sbuffo di fumo nero che scaraventò in aria un pezzo di giornale; il pezzo di giornale galleggiò nell’aria per qualche secondo e cadde lentamente sull’asfalto.
Green chiuse la finestra. Si versò un bicchiere di birra e tornò nello studio. Prese un sorso e chiuse gli occhi.

Ricostruì mentalmente la storia. Isolò i personaggi e ne studiò le funzioni. Li suddivise in tre gruppi e ad ogni gruppo attribuì un colore. Con tre pennarelli diversi sottolineò alcuni passi del racconto. Iniziò a leggere solo quelli, rapidamente.
Poi dal cortile si levò il rombo del motore spinto a pieni giri. Quasi nello stesso istante il falegname azionò la fresatrice. La porta del salotto iniziò a vibrare e Green si tappò le orecchie con le mani. Cercò di completare la lettura a voce alta ma in testa gli rimase solo il suono di qualche parola spezzata. Scagliò il libro a terra e lanciò un urlo.
Si alzò, camminò su e giù per la stanza. Poi chiuse la finestra.

Ma il frastuono adesso passava anche attraverso i vetri. Il motore della Zhigulì saliva e scendeva di giri. Spinto al massimo, si fondeva per un attimo con lo stridio della fresa per poi coprirlo in un boato assordante.
Green salvò il testo. Entrò in internet e controllò la posta. Non c’era posta in arrivo. Uscì, aprì il file del racconto e iniziò a scorrerlo da capo.
La fresa trovò un’altra volta il legno ma questa volta il motore morì con un lamento trascinato. Ci fu qualche attimo di silenzio. Poi un colpo sordo rintuonò nel muro.
Green si alzò e raggiunse la soglia del salotto. Il falegname stava in piedi sull’ultimo gradino della scala e dava le spalle alla porta. Aveva già montato le prime tre ante e lavorava agli scaffali della quarta. Una grossa chiazza di sudore gli schiacciava la camicia alla schiena. Alzò il braccio per fissare una vite; una goccia si staccò dal gomito e cadde sul parquet. Fu in quel momento che Green avvertì il fiato greve che incombeva nella stanza.
Tornò nel suo studio.

Accese la radio, prese il racconto e lo aprì. Poi si premette le mani contro le orecchie. Iniziò a leggere a voce alta, lentamente. Si fermò. Scorse le parole leggendo solo con gli occhi. Poi di nuovo a voce alta, cercando un’eco dentro le orecchie. E in quell’eco un’onda di suono continuo. Alzò la voce, la abbassò. Gli sembrò di avere trovato un’intensità ideale. Cercò l’inizio del racconto.

In quell’intervallo di silenzio tornò a salire il frastuono del motore in cortile. E, contro il frastuono del motore in cortile, il rimbombo del muro in salotto. Green si tappò di nuovo le orecchie. Intonò una litania di suoni senza senso, poi una melodia fatta di tre note. Trovò un mugghio che rimbombava nei timpani isolando i rumori di fuori.
Si trattava di rimanere dentro il racconto, di trovare una concentrazione continua.

Gli sembrò di esserci vicino e decise di iniziare. Cercò la prima frase. Premette a fondo gli indici nelle orecchie e la lesse a voce alta. Il timbro risultò metallico, e fastidioso. La rilesse, variando l’intensità e l’altezza. Una terza volta e una quarta. Finché, rallentando la frequenza, ritrovò un suono più cupo e continuo. Concluse il primo paragrafo e cominciò da capo. Le parole presero a fondersi in frammenti di frase. Tornarono frammenti di suono. Presero di nuovo a fondersi in frammenti di frase. Una mosca si posò sullo schermo del computer e gli occhi di Green si alzarono dalla pagina. Trovarono però subito la parola lasciata e la voce il ritmo di prima. E dentro quel ritmo le parole finalmente diventarono frasi. E poi immagini. Green finì di leggera la prima pagina, iniziò la seconda. Allentò leggermente la pressione degli indici dentro le orecchie, calò l’intensità del suono.

Le immagini adesso diventavano luoghi e azioni, Green riconobbe i personaggi e i loro discorsi, adesso il suono delle parole lette era solo ritmo, puro accompagnamento e scansione, un metronomo di voce che guidava le immagini in una precisa e perfetta scelta di tempo, e in quell’attimo Green seppe che avrebbe letto il racconto fino alla fine, senza distrazioni e interruzioni, capì che avrebbe condotto i pensieri lì dove voleva e quando tornò a distinguere i colpi del falegname contro il muro, colpi di martello sordi e forti, regolari, quei colpi si fusero col ritmo delle proprie parole che rieccheggiavano sorde dentro le orecchie, diventarono sintonia perfetta, accompagnamento ideale e necessario, adesso, Green finì la seconda pagina e iniziò la terza, la terza pagina iniziava con «mentre», quella parola per un attimo gli rimase sola e nuda negli occhi, una sequenza di tratti neri senza senso, pensò Green, ma fu un attimo, perché a quel pensiero concesse solo la frazione di un secondo, la sequenza di tratti neri subito diventò parola, frase e immagine, e a quell’immagine ne seguì un’altra, le immagini nascevano e svanivano per lasciare posto ad altre immagini in un flusso liquido che era musica e in quel momento, alla fine della terza pagina, quella parola gli esplose in testa spazzando via il suono e l’immagine, la voce di Green si fermò e i suoi occhi si alzarono dalla pagina: musica!

Green battè il pugno sul tavolo e lanciò un urlo di gioia. Tornò indietro, riprese a leggere da capo e ne fu certo: quel racconto era musica, e quella musca era ritmo, un ritmo perfetto, continuo, ipnotizzante, assillante, un ritmo magistrale fatto di parole piane e frasi semplici quasi tutte della stessa lunghezza. Lesse un paragrafo, poi un altro, contò le sillabe, le parole, le proposizioni, le frasi. Le rilesse a voce alta. Poi di nuovo mentalmente. Una precisa prosodia, questo era il racconto: una prosodia che costringeva il lettore in una gabbia di suoni. Seducente, rigorosa, geometrica. Artificiale.

Ogni racconto ha un difetto e Green l’aveva trovato.
Aprì il file, cancellò quanto aveva scritto fino a quel momento e in quaranta minuti scrisse la nuova recensione. La rilesse, corresse un passaggio, cambiò il titolo, salvò il testo, entrò in internet e lo spedì al direttore.
Poi spense il computer. Aprì la finestra, si alzò e uscì in corridoio.
Il falegname aveva finito il lavoro. Stava in piedi davanti alla porta d’ingresso e lo fissava in silenzio.