Seconda edizione 2003 • vincitore prima categoria

SOBER

Simonluca Merlante

IL RACCONTO

Tu e la tua birra.
A volte sembra che la città si spenga ed allora non ha più senso continuare a camminare ma tu continui lo stesso perché in fondo non puoi fare altro. Non sai fare altro. Dice l’adagio: chi va piano va sano e va lontano ma ora non centra un cazzo perché tu stai andando piano ma in realtà non ti stai muovendo e soprattutto non sei sano. La birra ha uno strano sapore acido che imputi distrattamente al caldo e sai che non è questo a farti sentire a disagio. Il buio non è ancora del tutto sceso ed un fottuto pianista nel Bar Città sta suonando Raindrops are falling on my head riportandoti agli anni Cinquanta che non hai mai visto, ma sai che non è questo a farti sentire a disagio. Forse è solo la fatica di camminare e non andare da nessuna parte, girovagare, solcare nuove strade e ritrovarsi su vecchi sentieri, capire che ti stai muovendo in cerchio ed il punto di partenza è anche la tua meta. Non credi davvero che gli occhi della gente siano capaci di farti sentire a disagio, ma di certo continuano a fissarti
(come sempre del resto)
e rimproverarti. In silenzio, a rimproverarti. Nessuno lì fuori ha mai il coraggio di parlare, di allungare la mano per tirarti uno schiaffo o alzarti dal fango. Semplicemente indicarti. Le vecchiette zompano rapide e 9 su 10 non ti vedono perché hanno altro a cui pensare
(?)
però quelle che ti avvertono oltre il muro
(di indifferenza)
eccome se ti notano e ti fissano e le senti pensare
(quello potrebbe essere mio nipote)
e mai una volta che invece parlino e ti interroghino sul motivo di quella birra. Sanno essere penetranti e invadenti, le vecchie, mentre lo sguardo di un compagno col Tavernello rosso in mano
(e le lacrime negli occhi)
non ha bisogno di parole e tu volentieri gli cederesti la tua birra se non fosse che c’è un caldo d’inferno e poi guarda come sta male, sarà già gonfio...
Lui di certo ti nota e non hai mai capito secondo quale meccanismo gli ubriachi cominciano a sbraitare però oggi mi sa che hai fatto tredici perché lui corre verso di te, ti ferma, ti tocca (non ha la forza di strattonarti) e biascica qualcosa e tu credi che sia tedesco ma in realtà parla italiano e
(togliti dalla strada)
lo sai, in fondo, che domanda poco. Un cartone di vino, il silenzio di un pacchetto, la solitudine di un marciapiede vuoto. Anche lui odia quegli sguardi e questo ti fa preoccupare, che forse fra un paio di anni ti metterai anche tu ad urlare in centro città. A puzzare di vino. A importunare i passanti che ti guardano male ma non vogliono avere niente a che fare con te. Lo fissi negli occhi e sono azzurri; noti la barba e capisci che è gialla per le sigarette, che i capelli sono scuri, unti, grigi a tratti ma non per la vecchiaia, chissà cos’è dentro che lo corrode. Ti assale il tanfo di fumo e di vino e solo allora lo vedi per quello che è ma non smetti di fissarlo e questo lo invita a ripetersi
(togliti dalla strada)
nella richiesta bizzarra. Ti guarda e il suo volto non è perso dietro ai fumi ma nemmeno penetrante come quello dei passanti, è uno sguardo di superficie che si dà a una ragazza brutta, è lo sguardo che lui riserva al mondo e se ne sbatte che davanti a lui ci sia il Papa o un ragazzino con la birra, da quella strada
(sì, scusa, ora me ne vado)
te ne vai e lo abbandoni ma stavolta sì che ti strattona e il suo sguardo è più penetrante ora, forse per via dell’odio... più che altro percepisci il vento della frustrazione e chissà come mai non hai alcuna voglia di discutere, sarà quella cazzo di canzone anni Cinquanta o la consapevolezza che tu, da ubriaco, non vorresti essere trattato così, fatto sta che
(guarda che ti arriva un ceffone)
a quel punto non sai davvero come allontanarti da lui e lasciarlo al Tavernello. Se ti arrischi a concepirgli una vita diversa da quella che conduce in questo momento, è finita, inizi a fantasticare e perdi la completa cognizione del presente, perciò cerchi di vederlo come un’ostacolo e non una persona, lo aggiri e non ci discuti, lo rassicuri soltanto con una frase
(ho capito, me ne sto andando)
che ti pare il più possibile innocua e sai che forse puoi sembrare un vigliacco o un menefreghista ma comunque non ti rivolge più la parola anche perché tu hai una bottiglia di vetro in mano e lui un cartone umido. Con tutto quell’alcol l’istinto primordiale di conservazione è l’unico feedback a funzionare ancora. Magari hai avuto paura, magari non volevi fargli male o forse ti faceva pena ma sai che c’è
(ognuno ha la propria storia)
qualcosa dentro di te che continua a metterti a disagio. Ormai è lontano oltre le tue spalle e quegli occhi azzurri, sbiaditi, ti penetrano ancora da parte a parte le scapole, ne sei certo, ma non è lo sguardo avvinazzato di un tavernellodipendente a preoccuparti, tantomeno le occhiate divertite di coppie perbene che osservano gli sviluppi di una discussione fra beoni. Magari la birra sta finendo e fra poco non sarai più sobrio ma dopo tutto tornerà come prima universo compreso. Sotto le coperte di un letto, tutto torna come prima. Non si può dire la stessa cosa per un mucchio di cartoni appoggiati ai piloni di un ponte. La vedi ora, l’incolmabile distanza fra il suo cartone di vino, il suo sguardo perso, ramingo, e la tua elegante birra, il tuo viso pulito, lindo. Vivete su pianeti diversi, vite diverse, esistenze stravolte da fiati alcolici e profumi eleganti. Chissà cosa c’è di diverso in quel mondo nuovo che si è fabbricato, un mondo dove nessuno può transitare per quella via, dove lui è il padrone e dove l’alcol forse non esiste o forse è obbligatorio o rimane solo lo Stargate per accedere a Tavernellolandia.
Non ti sei più voltato, non hai più osato guardarlo di nuovo negli occhi. Sai che ormai non è più dietro di te, perso chissà dove, a camminare per qualche via e ripulire i marciapiedi da chi, secondo lui, non può esistere. Ora fissi solo la birra, agli sgoccioli. Calda. Quel sapore acido ed una canzone anni Cinquanta che non faceva esattamente così, ma poi il pianista sta un po’ andando ad orecchio. Si alza una sola folata di vento, leggera, quasi nauseante nel suo essere vento caldo, sfiaccante come l’afa ed irritante come la bufera. Ormai giunto a destinazione, la mente sgombra, la birra seccata, ti siedi sugli scalini della chiesa, in piazza, guardi gli autobus fermarsi e ripartire, la gente passare e ridere ed accendersi sigarette.
È presto.
Pensi che sarebbe bello se il buio, per una volta, non scendesse. La città si sta spegnendo ma non è ancora notte.
Pensi che sarebbe bello sapere cosa ci leggono gli altri nella birra e nel vino, se vedono lo stesso volto che scorgi tu, fra la schiuma e l’alcol ed il sapore amaro del caldo.
Forse no. Dietro quegli occhi opachi lo sbronzo vive il proprio mondo, segue regole diverse, cerca una via migliore. Una mano di poker fortunata.
Evadiamo per ritornare, o per scomparire, o per farci sentire, ma in ogni caso per reagire al masso che ci schiaccia: le responsabilità.
C’è chi piange, c’è chi ride, c’è chi si diverte, chi non vorrebbe farlo più.
C’è chi lo fa per mestiere.
Guardi l’etichetta della tua birra e leggi libertà.